Velly    Articoli della stampa / Presse
 
 

Giorgio De Marchis,

Le Mostre, in l’Espresso, a. XV, n. 24, Roma, 15 giugno 1969).


Quei nudi femminili, così bene idealizzati e fluenti nella linea, sono sorelle delle eve e delle veneri del rinascimento nordico; ma sono anche, se non creature, sogni di oggi, proiezioni della fantasia e del sentimento di un olimpo subito smitizzato e rivisto con crudele occhio scientifico. Dietro la perfetta immagine della dea, spaccata e aperta come un modello per scuola automobilistica, la macchina del corpo senza più misteri, visceri, vene e muscoli che sono anche ingranaggi, tubi e leve. La fuga e il ritorno, la grandezza della natura e le sue servitù, che sono poi anche quelle della psiche. Velly usa il bulino, l’acquaforte e la puntasecca, separatamente e associati, con eguale talento; rompe la prospettiva e moltiplica i punti di vista. Innalza i mitici paesaggi dei mucchi di rifiuti, ed in almeno un’occasione (il grande Paesaggio dauto) usa la luce e lo spazio in modo da meritare gratitudine”.




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Riccardo Barletta, Giovane d’oggi che vive ieri,

in «Avvenire», Milano, 27 giugno 1969.


“Il presentatore Waldemar George indica maestri o modelli di Velly nientemeno in Dürer e Cranach, Altdorfer e Seghers, e i suoi numi in Bosch e Bruegel. Lo spettatore potrà rendersi conto non solo dell’alta maestria tecnica del giovane incisore, ma soprattutto della sua perfetta adesione (sia linguistica che emotiva) alla lezione dei grandi maestri citati.

Ci si può ricollegare al passato, o essendone eredi, o imitandolo. Il nostro non è nè l’uno, nè l’altro caso. Con espressione del Panofsky direi che siamo invece di fronte ad un pathos della lontananza. Velly riconquista infatti uno stile e una moralità, che sembrano antistorici, solo perché ambedue esprimono ormai anche oggi una situazione di travaglio, che si è fissata nella cultura come qualche cosa di tipico e di permanente. Il pathos sta nel suo amore umanistico, non in un ricupero, la lontananza sta nel significato attivo che hanno talvolta le assenze, più che le presenze” .





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Dino Morosini:


“Velly è tutto meno che un facitore di «falso antico». Gli si possono fare, se mai, radicali obiezioni di natura ideologica, ma dando sempre per scontata la sua prerogativa di rivivere davvero il passato: con fervidissima intelligenza e ad un alto grado di emotività.


Velly è un visionario, che coinvolge tutta la propria cultura nella tensione ideale (e psichica) da cui è posseduto. Prendete, per esempio, un’acquaforte come quella che egli chiama Paesaggio con macchine. Ebbene, ecco delle macchine (carrozzerie contorte, divelte, schiacciate di vetture od autobus) che dovrete andare a cercare colla lente di ingrandimento nell’anfratto nel quale l’autore le ha precipitate.


Carcasse di ferro come sparse ossa (cimitero di «elefanti», non di automobili) da scoprire pezzo per pezzo nel contesto di una natura che le sovrasta, le disperde, le divora. Quello di una vallata, piuttosto «infernale», vista a perdita d’occhio, ma esplorata tuttavia da uno sguardo e da una mente, che, ben lungi dall’arrendersi all’inafferrabile, appaiono mossi dall’assillante, ossessiva ricerca del detta ho: bosco, sottobosco, tronco, ramo, foglia, virgulto.


Certo, il fatto che un simile contesto, quel mucchio di macchine distrutte diventi una metafora della fine di ogni cosa, della materia che ritorna alla materia, va dato per scontato, in Velly. Come va data per scontata la stretta parentela di quel formicolio di dettagli con gli assilli, ottici e mentali, leggibili nelle foreste fantastiche di un Seghers, o meglio, di un Bresdin (si pensi alla Commedia della morte, per esempio, con quel vegliardo seduto fra tibie e teschi sparsi nell’erba, sotto un albero che nasconde scheletri dietro ogni ramo).


Ma è proprio per questo, per l’autenticità dell’emozione che coinvolge il tutto, che è vano, anzi deleterio, cantare le lodi della tecnica, in un simile caso. Su questo punto non ci son dubbi, direi. Essi investono, se mai, i pensieri «neo-medioevali» che soggiaciono alla visione (ed alle scelte di cultura) . La eternità che cancella il valore delle conquiste dell’uomo, il richiamo alla vanità delle opere, il «memento mori», insomma (così appare ricondotta, qui, la natura stessa, quale «specchio» della frattura tra energia e destino). Insomma, l’alterazione della dialettica tra storia e natura; alla luce di una concezione escatologica del mondo, male adattabile ai problemi di un giovane d’oggi. Tant’è vero che, su questo punto, anche l’autore mostra, talora, di nutrire i suoi bravi dubbi. Penso a certe sue incisioni del ‘65, quali Sfera, Caduta, Occhi e tubi. Dove esperienze e memorie tendono a portare in primo piano il tenia dell’odierno conflitto fra tecnica e natura, da affrontare con animo interrogativo e non apocalittico (e dove, non per caso, la stessa «stratificazione degli stili» coinvolge fenomeni linguistici storicamente più vicini alla nostra realtà).


(cfr. D. M. Dino Morosini, Velly: la morte e il diavolo,

in «Paese sera», Roma, 1 aprile 1971).



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Antonio Del Guercio:


“Velly accumula ossessivamente nell’immagine un brulichio denso di figure e cose, a un tal punto di perfezione tecnico illusoria da farla, almeno a un primo momento, respingere come immagine divorata dalla sapienza stessa del fare. Ma, in verità, si tratta di ben altro; e cioè della capacità di Velly di rivisitare le proprie fonti storiche, e soprattutto la linea michelangiolesca (e il neo-michelangiolismo degli inglesi del Settecento, Fussli in specie) al lume freddo d’una strana pietrificazione di cose e forme; una pietrificazione che viene da certo surrealismo e che Velly traduce in immagine concreta attraverso l’idea ossessiva (di origine, appunto, surrealistica) dell’ammassarsi fittissimo dei detriti. Idea che un’opera ad esempio come Montagna dimmondizie presenta direttamente, ma che in realtà è presente anche laddove (Metamorfosi II ad esempio) iconograficamente si tratta di altre cose. Voglio dire che i corpi e gli oggetti ch’egli assume e affolla nell’immagine sono essenzialmente corpi morti e cose morte; o quanto meno corpi e cose che hanno cessato di stare in relazione dinamica con gli altri corpi e le altre cose. Velly narra la storia ferma, o fermata, d’un pianeta freddo, senza movimento, e senza rumori; un pianeta entropico. E allora quella sapienza prestigiosa di mestiere riprende il suo senso vero di precisione forsennata nel dire questa non-storia nella chiave d’un referto tracciato da un testimone implacabile”.


(cfr. Antonio Del Guercio, Pittura e dolore, in “Rinascita”,

28, 14, Roma, 2 aprile 1971, p 23).



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Lorenza Trucchi:


“Mondo di gusto sostanzialmente simbolista ma rivisto con spirito nuovo, attento alle accumulazioni, agli assemblages, persino alle contaminazioni oggettuali della pop si veda, ad esemplo, come Velly trasformi le foreste Düreriane, così gremite di simboli teologici e metafisici, in coacervi di oggetti e rifiuti e, persino, in depositi di immondizie. Un visionario dei nostri giorni, apocalittico ma senza frenesie idealizzatrici”


(cfr. Lorenza Trucchi, Velly alla “Don Chisciotte”,

in “Momento-Sera”, Roma, 2 aprile 1971).




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Sandra Orienti, Il montaggio quasi arte,

in “Il Popolo”, Roma, 13 aprile 1971


“Velly è un grafico prestigioso, di una bravura e di una esperienza così affinata che rischiano di perderlo; perché entro questo mezzo scaltrito e acrobatico si rifondono agevolmente non soltanto tutto il repertorio immaginativo surreale, ma anche efflorescenze manieriste e puntigli nordici. Intorno ad ogni elemento di cui s’appropria, Velly riesce a comporre, per una sorta di germinazione lenticolare, un fittissimo armamentario di immagini, con un nervosismo allucinato che sembra finalmente un po’ allentarsi nell’esplorazione della figura”.



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Angelo Dragone:


“Velly ama la contaminazione figurale, mescolando continuamente ad una visione che ha spesso una classicheggiante impostazione i più tipici elementi surreali venati ora da una carica erotica ora di simbolismo, tra mitiche presenze e magiche evocazioni. Il segno ci sembra discendere da quello di Ensor, ma ha poi il piglio narrativo di certe gremite pagine di Callot; e se talora sembra ispirarsi a certe tornite beltà Düreriane, egli non è però mai del tutto immemore di maestri come Redon e Rops anche se da Metamorfosi alla Montagna dimmondizie, dal Trittico ad Acqua di Colonia Ma Joie); il sentimento, tutto suo, si fa interprete impegnato d’una temperie di cui non si stenta a cogliere l’attualità.

Originale è l’interpretazione della forma, in una grafia sottile, di rara efficacia, che gli consente di fissare con la stessa limpidezza certi particolari chiamati in primo piano, e le cose più minute e distanti, giocando sui diversi interventi tecnici: stabilendo i contorni con l’acquaforte, per riprendere poi la figurazione con la robustezza del bulino o con una più lieve traccia della puntasecca”.


(cfr. A. D. [Angelo Dragone] La poesia incisa,

Jean-Pierre Velly alla Subalpina, in «Stampa Sera», Torino, 5 gennaio 1971).



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Claudia Terenzi:


“Due anni fa la Galleria Don Chisciotte, la stessa che oggi espone i suoi disegni, presentò le incisioni dell’artista, giovanissimo, per la prima volta a Roma, e fu subito evidente come Velly avesse sviluppato fino ad imprevedibili conseguenze e tecniche classiche dell’incisione, bulino, puntasecca, acquaforte, mescolando questi tre metodi per arrivare a risultati estremamente abili. Le incisioni erano in uno stile antico, quasi per la volontà di verificare la propria capacità di disegno sulla universalità di espressione e di contenuto che si ritrova nel linguaggio e nell’idea dell’arte «antica». I suoi soggetti quasi classici riguardavano nudi, paesaggi e teste: nell’attuale mostra il lavoro di Jean-Pierre Velly rappresenta un passo avanti sia nell’impostazione della tecnica, che attraverso la pratica e la continua ricerca progressivamente si perfeziona sia nella scelta e nella impostazione dei temi, che, superata la fase e la verifica accademica (ma accademica come indifferenza e pretestuosità del contenuto), sviluppano una maggiore espressività rivelando ormai più precise intenzioni di indagine sui soggetti stessi e quindi una ricerca di valori contenutistici. I ritratti di donna, di bambine e di vecchie diventano fortemente espressionistici, e ne deriva perciò una caratterizzazione dei tratti umani, del sentimento che si esprime nel viso, nelle situazioni rappresentate, nella individuazione di un pathos oramai preciso. I disegni sono tutti realizzati con la matita a punta d’argento, vago ricordo, forse, dell’incisione”.


(cfr. Claudia Terenzi, La matita d’argento di J.-Pierre Velly,

in «Paese Sera», Roma, 10 giugno 1972).


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Elda Fezzi:


“Al primo incontro con queste pagine elaborate con tanta maestria, si esclamerebbe che esse abbiano tutti i numeri necessari per fare invidia ad un antico maestro del bulino e dell’acquaforte. E a questa illusione - che sembra voluta proprio per far cascare nella trappola il visore superficiale - conduce in realtà anche il canovaccio più vistoso, o, meglio, la struttura compositiva delle incisioni di Velly. Evocano vastità di paesaggi seicenteschi, monumenti manieristici e barocchi, o le gremite visioni romantiche di singolari artisti europei (a Rodolphe Bresdin, l’autore francese dell’800 che ha influenzato il simbolismo e Redon, Velly ha dedicato alcune sue acqueforti). Ma se si osservano con occhio più attento le fitte muraglie di ruderi e di rocce, le ampie e lussureggianti foreste e pianure, ciò che appariva un nostalgico sogno di alchimie incisorie alla Dürer, si presenta ricolmo di una materia che incancrenisce per il peso di organismi e di ferraglie che invadono ogni luogo.

Tutto allora si anima … di una crudissima malattia della natura e della terra. Ogni incisione - apparentemente memore di uno scenario di corte barocca - è un cumulo eterogeneo di residui umani disfatti e ormai inutili, sotto i cieli torbidi di nubi velenose.

… Velly ha una lucidità inconfondibile nella sostituzione quasi subdola degli elementi visivi”.


(cfr. E.F. [E. Fezzi] , Velly alla “Botti”,

in «La Provincia», Cremona, 4 febbraio 1973).



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Bruno Morini:


“L’attuale raccolta, composta nella gran parte di fogli recenti, ci rivela ora nella sua interezza la visione di questo incisore di razza, del quale pone in piena luce la forte personalità e le eccezionali risorse, che, per evidenti in tutte le trentacinque opere esposte, spiccano particolarmente nelle stupende acqueforti a grande orchestra, quali per citarne solo alcune «La strage degli innocenti», le quattro «Metamorfosi», «Susanna al bagno» e «Città distrutta», opere che immediatamente inducono a pensare ai grandi incisori europei del Quattrocento e del Cinquecento ( Dürer in testa), e non soltanto per la prestigiosa classicità della tecnica, ma anche per l’ampiezza del respiro e la spettacolare imponenza della rappresentazione.


A tali contesti grafici di sapore genuinamente antico, Velly affida la propria visione del mondo d’oggi, di questo mondo che un apocalisse ecologica (e spirituale) minaccia di sommergere in un solo immenso cumulo di rifiuti (nel significato reale e metaforico del termine) ... Ma nel rappresentarne gli aspetti anche più angosciosi e terrificanti, l’artista non sa rinunciare a un suo classico, ancestrale concetto di bellezza; l’angoscia e il Dürer dell’uomo, il suo disfacimento psichico, e quello della natura, egli li trasferisce, vincolati a tale concetto, nel segno, nelle immagini, nelle sue impressionanti scene di moltitudini nude, da girone dantesco, da Valle di Giosafat, trascendendo ogni crudezza, ogni repellenza grafica; le montagne di immondizie, le frane di oggetti sconquassati, di rottami, tubi, ruote, gusci, scorze, nobilitanti dall’antica sapienza d’un finissimo chiaroscuro, d’una impeccabile armonia compositiva, assumono aspetti d’ordine squisitamente paesistico, così come i grandi nudi muliebri che si alternano ai mucchi dei rifiuti e dei brandelli o con essi franano e vorticano assieme a teste umane e frammenti di corpi esprimono la composta nobiltà di statue rinascimentali, d’antichi ruderi marmorei.


Continuo è, in queste incisioni, il richiamo a un ideale estetico fuori del tempo, che l’artista ha, che tutti abbiamo nel sangue, e costante è l’intendimento di adeguarvi l’immagine d’una realtà che al tempo è inesorabilmente legata. Velly riesce a realizzare in modo mirabile tale arduo intendimento, senza dissacrare quell’ideale e senza misconoscere questa realtà”.


(cfr Bruno Morini, Jean-Pierre Velly,

in «Il Giornale d’Italia», Roma, 18- 19 giugno 1974)



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Gino Visentini, Jean-Pierre Velly,

in “Il Messaggero”, Roma, 24 giugno 1974.


“Per Jean-Pierre Velly l’arte non è il risultato ultimo di un opera, ma il «farsi» dell’opera stessa, al quale viene dato tutto il tempo e tutto l’impegno possibile. E chiaro che l’artista tiene d’occhio la grande tradizione rinascimentale degli incisori nordici…Velly considera a tecnica di quella tradizione come il culmine dell’arte dell’incisione, dopo di che qualsiasi tentativo di cambiamento non è che discesa verso un’arte meno perfetta’.


“Motivo di ciò è il sentimento panico della natura che soggiogava e forse atterriva il pittore. Egli vedeva la natura come configurazione di colori e le azioni umane come cozzo e annullamento di volontà. Nel «Massacro degli innocenti» un brulichio di figure si stempera in un largo paesaggio. Spesso, un nudo femminile alle proporzioni e di opulenza tardo rinascimentale si specchia in un caos che comprende le macchine, la città, la natura.

In «Tramonto», il bagliore di luce che, pulsando, tiene rilegati cielo e terra, ha la forza fecondatrice della linea a spirale con la quale Claude Mellan fissò il volto di Cristo: un exploit tecnico vertiginoso.

Altrove le nodosità, le ramificazioni di un tronco sono analiticamente ripercorse come metafora del rovello dell’artista, del suo tormento di rendere con chiarezza strutture d’inestricabile complessità.

I colori umbratili e le ore del giorno contrastano singolarmente con i fiori appassiti, con le forme dure e spigolose, il disegnatore epico e drammatico alla fine della giornata di lavoro inclina verso la malinconia e il lirismo”.



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Mikios N. Varga:


“Incisore puro, particolarmente versatile all’impiego del bulino, Velly può essere ritenuto il più moderno degli antichi, nel senso che le sue frequenti rivisitazioni (es. Dürer, Cranach, Bosch, Bruegel, Altdorfer, Marcantonio Raimondi, Seghers, Callot, Bresdin, etc.) ne riqualificano l’operatività extratemporale attraverso lo spazio onirico-surreale delle proprie attitudini visionarie, del tutto sradicate dal terreno delle comuni riappropriazioni (es. i d’après) immaginative. A questo proposito, Waldemar George ha scritto alcuni anni fa: “Velly elabora uno spazio onirico che si allontana dalla norma. L’estensione è trattata da questo incisore il cui “doppio” è un taumaturgo, come una materia duttile. Le regole di un’arte classica, presunta intangibile, sono violate o almeno trasgredite. Una realtà adeguata ai principi che reggono il meccanismo dell’occhio fa posto, in questi miraggi che sono le strane tavole di Jean-Pierre Velly ad una prospettiva che ha la qualità della molteplicità. Ogni elemento di una composizione ha una prospettiva propria e questa pluralità di punti focali permette all’artista, questo sognatore dagli occhi ben aperti, di tradurre l’invisibile al di là del visibile. Jean-Pierre Velly sembra sfidare le leggi della natura. Le forme vegetali e quelle meccaniche, le forme antropomorfe e quelle minerali si affrontano e si aggrovigliano, si incrociano e si confondono. In questo impero bizzarro costruito con ogni sorta di elementi, rocce di uno stile geometrico si mutano in teste mostruose. Brandelli raggruppati in maniera arbitraria assumono l’aspetto di macchine infernali o di macchine volanti. Esseri umani, che sono scorticati, corpi rosi dai vermi, antichi marmi le cui interiora sono fatte di ingranaggi di cordami di tubi di bielle e di pulegge, e dee della fecondità, simboli della terra-madre, animano un regno sorto dallo spirito chimerico di un poeta. Le immagini di Velly e il loro ordito plastico non possono essere dissociati. Esse concorrono ad un effetto d’assieme e marchiano così l’unità interiore di un’opera che sfugge alla misura comune”.


Infatti, nel microcosmo di Velly, la compresenza di elementi apparentemente eterogenei determina una “unità che si sottrae a qualsiasi “misura comune”, in quanto è l’insieme delle cose (verificabili alla lente d’ingrandimento) a costituire una pluralità di “punti di vista” coagulantisi fra loro fino a evidenziare una rappresentazione armonica del molteplice nell’uno. Certo, nel regno di Velly vengono compendiati i tre grandi regni della natura (animale, vegetale, minerale), dipendenti per associazione metamorfica, con effetti di spaesamento visivo e di conflittualità concettuale; ma tutto ciò rientra nella dimensione surreale”, non razionabizzabile a priori, che presiede al processo di trasformazione della materia vivente”.


(cfr. Mikios N. Varga, Jean-Pierre Velly,  Galleria Transart - Milano, in «GIa International» a. XII, n. 7 1 , Milano, aprile 1975, pp.65-66).


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Vanni Scheiwiller, Le mostre. Jean-Pierre Velly,

in «il Settimanale», a II, n. 13, Roma, 29 marzo 1975, p.92)


“Arte come tecnè: Velly con la tecnica e la magia dell’incisione, ricrea un suo mondo, delle sue prospettive, un suo spazio onirico. Per esempio, La strage degli innocenti potrà sembrare fuori tempo ma ben dentro nel suo tempo ciò che riesce a evocare: dai campi di sterminio nazisti ai massacri nel Vietnam, in Africa, nel Sud America, ovunque avvengano le «inutili» stragi”.


Vanni Scheiwiller:


« L’art comme technique : Velly avec la technique et la magie de la gravure, recrée son propre monde, ses propres perspectives, son espace onirique. Le Massacre des Innocents qui, par exemple, pourrait sembler hors du temps, est bien contemporain dans ce qu’il réussit à évoquer : des camps d’extermination nazis aux massacres du Vietnam, en Afrique, en Amérique du Sud, et partout où adviennent d’inutiles massacres ».



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Michael Gibson:


“His work is baroque, surreal, allegorical and even apocalyptic in the sense that is suggests a vision of the future that passes through destruction on its way to Utopia. There is an extreme proliferation and at the same time an immense space in many of these works. The artist himself holds the promise of an unusual conjunction of virtuosity and driving purpose”.


(cfr. Michael Gibson, Around the Galleries in London and Paris,

in «International Herald Tribune», Londra, 18- 19 dicembre).



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Giuseppe Servello:


Non ingannino dunque certe forme esterne di Velly: sono strumenti, modi e mezzi per arrivare ad una proporzione personale. Dentro le mobili inquietudini delle linee si articola la consistenza viva e corposa di una figura, di un paesaggio. L’incisore non perde mai il senso solido del blocco, ma si direbbe che disegni col fiato, tanto nervosa e poetica appare l’idea voluta e infine raggiunta. Tutto ciò è ragionato con cartesiano processo di sintesi: e l’emozione è interamente lasciata all’occhio capace di afferrare alla prima il senso di una storia. Perché di storie si tratta, di indagini interne e segrete, di filigrane figurative. E una sorta di “mistero laico”, come diceva Cocteau a proposito della pittura metafisica di de Chirico. I personaggi diventano allora amuleti, idoli di una religione nella, logica della vita contemporanea. E le voragini, le metamorfosi, i titoli simbolici ed allusivi, sono affidati come si diceva più all’intuizione che al raziocino dello spettatore”.


(cfr. Giuseppe Servello, Il mistero laico di Velly, in «Giornale di Sicilia», Palermo, 25 marzo 1977).


Eduardo Rebulla:


“Reale e fantastico convivono nelle sue incisioni con una esuberanza sopraffacente sorretta da una inconsueta perizia tecnica e dal delirio lucido dell’invenzione, evitando tanto la ricerca affannosa dell’assurdo a oltranza quanto l’enigmaticità arruffona da eccesso di «simboli».

Migliaia di oggetti in una calca caotica e ipertrofica, che neppure li confonde, si inseriscono in un paesaggio naturalistico: dove sta l’inganno se nessuna frattura separa i primi dal secondo, se la simbiosi è perfetta dando al risultato un aspetto rassicurante e distaccato dentro cui convergono per colmo lezioni e riferimenti colti? Nessun velo: l’agibilità dell’immaginazione è dimostrata, basta decidersi a spostare l’angolo di osservazione abbandonando consuetudini vizze ed estetismi consumati (nel senso di quei «cadaveri mascherati» di cui parla A. Savinio). Anzi è forse un modo per sollevare il velo e guardare oltre la superficie delle cose.

Manca, è vero, a Velly, quel tanto di spregiudicatezza in più (come dire la capacità di andare a fondo) da consentirgli di spezzare le ultime remore ma il gioco è, evidentemente, teso, ed egli sa svolgerlo con discrezione e intelligenza, aggiungendo un’ironia intrappolata in pieghe sottili e una grafomania insistente (assimilabile all’horror vacui)”.


(cfr. Eduardo Rebulla, Fantasia «eversiva» di Jean-Pierre Velly,

in «L’Ora», Palermo, 15 marzo 1977).



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Vanni Scheiwiller, in «L’Europeo», a. XXXIV, n. 13, Milano, marzo 1978, p. 8.

ARTE

L’incisore prodigio ha scoperto il colore


Jean-Pierre Velly: 24 inchiostri, matite e acquarelli 1976-1978, alla Galleria Don Chisciotte, via A. Brunetti 21a, Roma, fino al 31 marzo (Prezzi: da 500.000 a 800.000 lire). LEONARDO SCIASCIA: “Velly pour Corbière”, ed. Don Chisciotte, Roma 1978, lire 5000 (ed. di lusso, con un’acquaforte originale, 100 es. lire 80.000).


Tre anni di lavoro di un disegnatore formidabile: ben noto in Italia come incisore prodigio, questa mostra lo rivela anche come eccezionale, perfino mistico colorista. Francese, trentacinquenne, Velly ha studiato a Parigi e nel ’66 ebbe il primo “Grand Prix de Rome” per l’incisione. Dopo il lungo soggiorno a Roma dal ’67 al ’70 ospite di Villa Medici, si trasferisce a Formello, alle porte di Roma, dove attualmente vive e lavora, alternando viaggi in Francia e Spagna. Velly non ha paura di essere fuori delle avanguardie storiche e si riallaccia piutosto alla grandiosa tradizione francese che ha in Poussin il più glorioso e cerebrale degli artisti francitaliani e romani d’adozione. Il suo mondo fantastico, dove l’attuale civiltà è vista già come cristallizzate rovine, è colto in modo un po’ ambiguo, a occhi socchiusi, sorretto sempre da una tecnica prodigiosa. Gli acquarelli della mostra, presentata da Leonardo Sciascia, sono ispirati dalle poesie di Tristan Corbière, poeta maledetto, “parisien un instant e bretone sempre. Anche qui il suo mondo visionario, apocalittico, è colto a occhi socchiusi, un po’ ambiguo, come sospeso: mare e cielo, uomo e donna, vita e morte. Un colore “nordico”, ha scritto Sciascia, un colore bretone ma rivissuto nelle “promenades dans Rome”. E prima ancora: attraverso l’azzuro del “romano” Poussin.



Marie-Luise Sciò scrive su «International Daily News»:


“Stendhal and Corbière meet throught the artfull hands of Velly. The 19th century French writer Stendhal (actually a pseudonym for Marie-Henry Beyle), Breton’s poet of the same period, Corbière, and Velly are linked by heritage, love and philosophy.

All are Frenchman. All have been infatuated by the romantic italian skies. All are logicians and poets simultaneously. All have questioned life after death. All have observed man and nature and made precise psychological observations.

A puntctilious technique won Velly the coveted Grand Prix de Rome, and it is to be seen in 24 watercolors which paint the poet Corbière «Rondels Pour Après». The six poems of the poet whose life ended at 30 in 1875 are dialogues of the self. Short, artistically fluid, but with a morbid base, there is a coupling of the heroic with the dramatic. Velly is akin in spint, and picks up on Corbière’s conception of life after life.


… «I prefer watercolors to the technique of etching, I fell more free in my renderings» said Velly on the first day of the show «but any works retains my training as an etcher”.


This obvious in the composition of ecru in which he depicts the dead poet as booking into a coffin, it is executed in fine lines of a rainbow. The poet done in pencil lies over a series of figures who move out from a central line. In a rendering of a page from a childs notebook, the soft image of a boy is reflected. An ink spot on the upper right of the page of the book is, as Velly said, «like a star that brings the poet to the rising star through a series of swirling ink blotched». He goes on: The observer’s eyes travels to the spot of pale red ink that is spilled on a portion of a notebook from an obviously older student, as the squares are smaller. Then, from there, ink spills softly in gray to bring you back to the poet. The draw drops that faintly frame the notepaper relate life to nature, and back».

In all of the 24 works, Velly shows his pinpoint clarity, and his ironist sentimentalist nature. An artist with exceptional ability; he has done an exquisite series.


(cfr. Marie-Luise Sciò, A french artist with acute eye and a master’s touch,

in «International Daily News», Roma, 5-6 marzo 1978).


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Elvira Cassa Salvi:


“Ed è tema manieristico infatti quello della proliferazione degenerante, della fecondità corrotta, della metamorfosi decadente, della neoplasia. All’origine sta il senso sano, avvincente, del dilagare vitale: siano i cirri in cielo, le creste d’onda marina o lo sterminato intreccio del gran tappeto vegetale, alberi ed erbe, felci e cespugli, Velly dilaga con una sensibilità panica cui tien dentro, con straordinaria fluidità, il tessuto strepitoso e infinitesimale del segno.


… Ma nei fogli di Velly la generazione corrotta non sempre si lega alle immagini di questo realismo visionario, di questi angosciosi assemblages che incombono, assediano, minacciano la sopravvivenza delle ultime oasi di vita. Spesso il degenerare della vitalità, la corruzione dell’originaria fecondità, della potenza inarrestabile della procreazione prende forma di grandi ascensioni, che muovono dal corpo disfatto della donna, al modo di quegli immensi cortei d’angeli che nei secoli passati accompagnavano il glorioso trapasso di un santo, 0, in senso inverso, il precipitare d’un demonio. Ma in queste ascensioni di Velly non si vedono né angeli né demoni, ma piuttosto oggetti senza senso, corpi senza forma, orribili, tragici, trionfi del non-senso”.


(cfr. e.c.s. [F. Cassa Salvi] , Jean-Pierre Velly,

in «Giornale di Brescia», Brescia, 3 marzo 1979).



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Angelo Dragone:


“Fin troppo facile, forse, vedere ora nell’uomo colto e nella potente suggestione del barocco romano, gli elementi che hanno sollecitato la fantasia, sino a fame un mistico moderno, preso tra immagini di morte e di resurrezione e i miti nevrotici del nostro tempo. Ma è capace anche di fissare in una lastrina minuta un trasognato Notturno e una Maternità dove l’immagine di luce che costruisce, lascia godere sino in fondo la bellezza del suo segno espressivo”.


(cfr. Angelo Dragone, La grafica visionaria di Velly,

«La Stampa», Torino, 29 maggio 1979) .


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“Questarte” ospita un articolo di Nerio Tebano sul suo lavoro:


“Smaltita l’esigenza di attingere all’orto genesiaco della creazione, le incisioni di Velly risentono oggi di altri umori e di altri furori icastici, dove il fantastico sembra prevalere sul demoniaco, il segno grafico meno allucinante e graffiante, senza perdere niente della sua incisività e della sua pregnanza. Sarà stato il clima e il colore di Roma, sua nuova città di adozione, a stampare in lui quella virulenza di immagini, che nelle prime incisioni viste in Italia avevano trovato terreno fertile nella serie delle Metamorfosi, segnali d’allarme per la morte della natura, capati tra grovigli di rami secchi e di foglie morte; tra cimiteri di corpi umani e di oggetti di consumo, e nella stupenda incisione La strage degli innocenti che non sai se ricorda l’Apocalisse di secoli remoti oppure è il pregio di ciò che dovrà accadere in un futuro molto prossimo.


Certamente l’ambiente ed il paesaggio tutto intorno a Formello, a qualche chilometro da Roma, dove egli ora vive, avrà influito sul nuovo corso di cui qualche validissimo esempio è stato offerto nell’ultima sua personale alla Galleria Don Chisciotte di Roma. Una serie di recenti incisioni nella quale un nuovo spazio poetico-figurativo è avvertibile”.


(cfr. Teb (N. Tebano , Velly a Roma, Incidere al la luce del sole, «Questarte», a. III, n. 8-9, Pescara, agosto-settembre 1979, p. 11).



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«Le Figaro»


“Prix de Rome de gravure en 1966, Velly expose chez Michèle Broutta son oeuvre gravé complet: douze années de production. Impressionnantes par leur maitrise technique, ces oeuvres plastiquement très classiques évoquent tout un univers pictural où l’on retrouve comme une trace de William Blake, de Bresdin, d’Hercules Seghers, d’autres encore. . . Velly est un excellent graveur travaillant à l’intérieur d’une tradition.

Ce qu’il y a de fascinant chez cet artiste lent, minutieux, c’est la démesure. Une démesure qui s’exprime dans le foisonnement du détail à l’intérieur de l’infiniment petit, dans chaque élément fouillé, fouaillé jusqu’à l’extréme limite du visible. Par exemple dans cette planche intitulée le Massacre des innocents où l’on voit d’innombrables enfants grouillant dans un vaste espace découvert vu d’un peu haut, comme dans beaucoup de toiles de Bruegel où encore cet Ange et linceul qui semble nous ouvrir les portes de corne et d’ivoire du rêve. Chez Velly le brio technique sert au surgissement de l’imaginaire”


(cfr. M. N., Velly graveur de l’imaginaire, in «Le Figaro»,

Paris, 28 mars 1983).




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Le Monde des Arts

jeudi 31 mars 1983


GALERIES A PARIS



Au-delà de l’image


Restons dans le monde de la gravure avec Jean-Pierre Velly. Son inspiration est tout autre (que celle de Fred Deux, NdE) mais son métier confondant. Son séjour à la Villa Médicis a été bénéfique. Seulement tout est venu nourrir le sens du fantastique et une technique héritée d’un Bosch et d’un Dürer, monstres «grotesques » métamorphoses animales et végétales, cataclysmes, tout lui est bon. Dans cette mini rétrospective, on suit une courbe ascendante vers la lumière, et les planches les plus récentes s’éclairent de trouées éblouissantes (Qui sait ?, Rondels pour après, les Temples de la nuit...). L’amateur d’estampes sera d’autre part fasciné par de vrais tours de force : Paysage Plante, Ville détruite, par exemple, fourmillent de détails microscopiques multipliés à l’infini.


Jean-Marie Dunoyer



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«L’Oeil»:


“Le réel apparait, dans ces gravures, comme une sorte de gélatine aux formes enchevetrées en elles-mêmes et, toutefois, exactement tracées, et qui permettent de passer du naturel à l’humain et, de là, à l’inhumain en une continuelle métamorphose qui laisse deviner un esprit et une imagination irrésistiblement portés vers la métaphore et le symbole”.


(cfr. Paris, Velly in «L’Oeil», n. 332, mars 1983, p.71).





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Antonello Trombadori :


“La scelta di Velly si iscrive naturalmente nello svolgimento della giovane pittura italiana dal 1960 in poi. C’è, di certo, nel suo rifugio nella «beata solitudo» medievaleggiante tiberina anche il riflesso del revival quasi preraffaellitico che si esprime, un po’ dovunque in Europa, nella fuga dall’assedio tecnologico urbano. Ma tanto più Velly riesce a dischiudere finestre e a indicare sentieri di fuga quanto più la sua fantasia si fa introspettiva e si concentra su oggetti e luoghi di una segreta e separata esistenza. Il suo stile si precisa in tal modo come un momento del medesimo processo inventivo che è tipico di alcuni pittori italiani di più sicuro spirito europeo. Ne cito due di diversa generazione e di diverso impatto con l’immagine: Piero Guccione e Enzo Cucchi. L’attenzione portata a Velly da Jean Leymarie, da Alberto Moravia, da Leonardo Sciascia, da Giorgio Soavi, da Marisa Volpi pone giustamente l’accenno sulle ascendenze nordiche di un magistero grafico che risale a Seghers e a Rembrandt, a Bresdin e a Redon. A me risulta impossibile non collegare i «fiori» di Velly a quelli sia di Antonio Donghi che di Mario Mafai rivisitati in modo tale da fare appunto di lui, come un po e accaduto al suo coetaneo tedesco Dieter Kopp, uno dei rianimatori dell’eredità fertilissima della Scuola Romana della prima metà del secolo”.


(cfr. Antonello Trombadori, Velly i fiori del pensionato, in «L’Europeo», Milano, 17-26 aprile 1986, p.134).


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Lorenza Trucchi scrive (leggere l’articolo in esteso):


“Il referente, meglio la coscienza occulta di Velly, fu Dürer, una influenza diretta, quasi testuale che si manifestò sin dagli inizi quando l’artista praticava esclusivamente l’incisione: per lui non solo una tecnica ma una vocazione. Uomo del nord, neogotico, egli adottò il linguaggio di Dürer, minuzioso e limpido, pungente e fluido, basato su un sistema esatto, geometrico, e caratterizzato da un segno che tutto distingue pur puntando alla totalità ed alla simultaneità. Ricordo come Velly, nei primi anni Settanta, trasformasse le foreste dureriane gremite di simboli teologici e metafisici, in accumulazioni di oggetti, persino in discariche di rifiuti, quasi un pop anomalo, visionario e apocalittico. Trasferitosi definitivamente a Formello, Velly sente la suggestione della campagna romana e di una luce intensa e cangiante. Le sue incisioni presto si connotano per forti effetti di chiaroscuro: dilaganti bagliori lacerano la profondità dell’ombra. si insinua una tentazione romantica che l’artista domina con esercitata perizia sino al limite del virtuosismo. Si vedano alla mostra «Massacre des innocents» ( 1970) , quasi un omaggio a Seghers ed ad Ensor, e «Les temples de la nuit» (1979) e «Qui sait?» (1973), che echeggiano il simbolismo di Redon. Ma ben presto Velly si rende conto che l’eccesso di mestiere può nuocergli sino a fame il manierista di se stesso e proprio per uscire da questa impasse incomincia a dipingere. A indicargli la strada è ancora Dürer, il Dürer intimo, delicato, fragrante degli acquerelli e dei guazzi che riproduce con umiltà le cose della natura «come sono». Nascono così, a partire dagli anni Ottanta, le mirabili serie degli acquarelli che costituiscono il fulcro della mostra di Villa Medici.

Velly si rivolge alla natura giacché in essa è la verità. Ricordiamo ora un passo degli scritti teorici di Dürer: «La vita della natura manifesta la verità. . . quindi osservala diligentemente ed attieniti ad essa». La verità, che già opportunamente il pittore tedesco distingueva dalla realtà, è dunque seppellita nella natura e solo chi può estrarla la possiede. Con diligente, scrupolosa manualità artigiana ed estremo rigore formale, Velly indaga la natura, spesso per brani, per campioni, scelti dal mondo animale e vegetale. Ogni particolare lo attrae, anche il più umile e scostante. Il suo pennello è affilato come un bisturi, il foglio si trasforma in un tavolo anatomico, c’è infatti qualcosa di crudele, spietato e, insieme, di amorevole e doloroso, nei suoi acquerelli di piccoli animali e insetti morti. Altre volte il pittore crea delle vedute decisamente romantiche, quasi alla Turner, collocando in primo piano mazzi di fiori dipinti con capillare e capzioso verismo. Elemento unificante e coibente è la luce: di fatto il vero soggetto del dipinto.


(cfr. Lorenza Trucchi, La spinta della luce,

in « Il Giornale nuovo», Milano, 7 Novembre 1993).



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Marco Vallora:


“Ed è credibile che chi, con che sofferente umiltà, ai piedi del bellissimo ritratto di Giuliano de Marsanich, suo amico e gallerista-mecenate, scriveva con sgomento « I miei limiti sono immensi» - giocando proprio su questo contrasto hoelderliniano tra immensità del cielo espressivo e piccolezza del tratto del punto umano, che incontra e ferisce per sempre l’epidermide vulnerabile della lastra - è davvero credibile che qualcosa volesse aggiungere ancora di parlante, di «giustificatorio»; ma mai di lamentoso, di querulo. «Lasciatemi la mia notte»: come un tacito accordo. La notte anche del segno, del non espresso gorgo dell’alchimista che incide direttamente dentro il pus irrimediabile della vita. Incidere, «graver»: se vogliamo fantasticare un’etimologia, c’è sempre un annunzio di gravità, di sofferenza, in questo impulso di tratto (il «punto» lo chiamava barthesianamente Velly: Un punto ed è tutto) in cui qualcosa di grave, di irrimediabile accade sul foglio: la prometeica sfida - folle e dannata dell’artista-demiurgo. «Sull’ardesia delle mie angosce ho scritto i miei ricordi».

… Da Rembrandt e da Goya, Velly ha imparato la grande scommessa di dipingere soltanto la luce, anzi, l’ombra.

    E scrive: «Le mie notti bianche erano i miei giorni. Come si assomigliano l’alba e il tramonto, a rovescio». Racconta proprio questi innaturali «rovesci»; fosforescenti notturni in cui esplode pulviscolare la fistola del tramonto, cieli inventati che scoppiano acquosi come negli amati Calvari di Altdorfer, irritati dal crepuscolo come da un eritema melanconico. E su questi sfondi sbiancati s’inscrive spesso il gioco di diteggiatura - anchilosato dal ghiaccio, degno di un Janssen - dei rami di alcheghengi o di sassifraga, Disperazione del Pittore”. [. . . I Forse le cose più belle sono proprio queste pagine d’atlante, di bestiario, pipistrelli trafitti da spilli d’inchiostro, ramarri dallo sguardo bifido ed infido, scarabei dal passo lenticolare ed infermo che tentano di raggiungere fiori che non gusteranno mai.

E il momento funebre e geloso in cui si spezza la corazza del crostaceo. E questo fa l’artista: spolpa voluttuosamente le cartilagini del mondo.


(cfr. Marco Vallora, La sfida folle e dannata di Velly,

in «La Stampa», Torino, 8 novembre 1993).



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Guido Almansi (leggere l’articolo per esteso):


“La natura è minacciata dall’apocalisse, suggerisce un critico di Velly. Io andrei ancora più in là. La natura è già apocalisse, e il creare è solo una premessa inevitabile alla distruzione. E un’apocalisse quotidiana, in cui il pittore sembra essersi crogiolato, magari con un pizzico di snobismo.

… ecco un pittore di origine francese, che è arrivato a Villa Medici e, dopo aver vinto un celebre premio di pittura, innamorato della luce e del colore dell’Italia del Sud (che però ha influenzato la sua vita più che la sua pittura, come afferma giustamente un critico), ha deciso di stabilirsi nel Lazio per arrivare a Dürer. Non è un po’ curioso? Perché Dürer? Perché certi rami d’albero di Velly (anch’io partirei da lì), osservati malinconicamente dall’artista in tutto il prepotente valore analogico del loro essere contorti, sofferti ad ogni ramificazione e biforcazione, come se la deviazione dalla linea maestra del tronco rappresentasse uno sforzo atroce che segnala lacerazione e tormento, ricordano, alla mente del critico assuefatta alla somiglianza universale, i fili d’erba di Dürer. Forse, forse. Ma “il nero che ti manca” sembra un peso logorantemente personale, nell’illusione che la psicologia individuale possa portarci un po’ più lontano di quella del “Volk”, di un popolo intero. E qui viene la tentazione di scivolare da una scienza fasulla, la “Volkspsychologie”, a una scienza altrettanto fasulla, la fisiognomica. Perché, ultima illusione, il destino di Velly sembra segnato sul suo volto.


È un volto tragico, che noi associamo ai più cupi profeti, o al maledettismo Ottocentesco. E non per niente il suo poeta favorito, di cui aveva illustrato le poesie in un’altra plaquette con prefazione di Leonardo Sciascia, è Tristan Corbière, suo conterraneo della Bretagna, uno dei poètes maudits scelti da Verlaine.


… Pittore e acquafortista di strabiliante abilità, interessato soprattutto al mondo naturale in un disprezzo aristocratico (o forse un po’ snob, anche qui) per i segni della civiltà industriale, Velly non ha cercato né il paesaggio (italiano) nella sua crudele luminosità, né i documenti della sua distruzione, ma un senso cosmico dello spettacolo della natura al limite tra l’essere e il non essere, che è immagine precipua dell’apocalisse. Non mi sembra un artista controcorrente, ma un pittore che nuota lungo un corso d’acqua parallelo, che non è né quello degli esaltatori né quello dei denigratori. Noi tutti nuotiamo nella corrente della vita; lui altrove”.


(cfr. Guido Almansi, Sperava di scoprire il buio universale,

in «Arte», a. XXIII, n. 244, Milano, ottobre, 1993, pp.68-69).


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Luigi Lambertini

Trafigge la sua preda come un entomologo,

in “Corriere della Sera”, Milano, 24 ottobre 1993


“ C’è quasi la fredezza dell’entomologo che trafigge la sua preda con lo spillone, ma c’è anche nel senso dell’efimero una commovente solidarietà e una laica pietas, che induce chi guarda a vincere ogni institiva repulsione, magari davanti a quel ratto appeso a un filo o al pipistrello inchiodato alla parete con le ali inutilmente spalancate.

Anche le luci e i colori e sopratutto i gialli solari, che nei paesaggi laziali bruciano come un’esplosione, trasferendoli dalla realtà alla contemplazione, concorrono a plasmare questa sorta di gorgo che tutto inghiotte.”




FORMELLO


Quelle figure grottesche  in un gioco di chiaroscuri


« HO COMINCIATO il mio cammino nell’arte disegnando e dipingendo ma finalmente ho scelto il più povero dei linguaggi, l’incisione». Così l’artista francese Jean-Pierre Velly (1943- 1990) racconta la sua scelta artistica che lo ha portato ad essere annoverato tra i maestri della grafica francese contemporanea, autore di elaborate incisioni di matrice fantastica e visionaria, presentale in un’ ampia mostra retrospettiva, aperta fino al 30 luglio al palazzo Chigi di Formello (10-19; chiuso lunedì). Curata da Giuseppe Appella, la rassegna riunisce un’ottantina di opere che documentano le diverse fasi della ricerca di Velly dal 1964 al ‘90. Un itinerario visivo complesso ed elaborato che comincia con le prime incisioni dai toni drammatici popolate da figure dai tratti grotteschi ed esagerati, con corpi contorti e deformati. Col passare del tempo Velly intensifica il gioco dei chiaroscuri e infittisce il disegno per costruire immagini più affollate, come “Susanna al bagno” (1970) o la serie delle metamorfosi. Decisamente più inquietanti appaiono le opere recenti come “Le rat mort” (1986) o “L’ombre,la lumière” (1990), che chiude questa bella mostra di Velly.


Ludovico Pratesi, LA REPUBBLICA 5 GIUGNO 2002



 

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