Velly     Giorgio Soavi (1989)
 
 
A Parma dipinti e disegni del pittore francese da anni in Italia

Vellicarsi con Velly

Giorgio Soavi 
Il Giornale, Domenica 28 ottobre 1989

Se un pittore disegna paesaggi, erba e fiori attraversati da una luce e se il suo modo di disegnare assomiglia al modo dei pittori antichi, quali dettagli ci riveleranno la sua modernità, la sua astuzia, visto che costui è apparentemente e consapevolmente antico in quanto adopera carte invecchiate, lacerate e, in taluni casi, sovrapposte le une alle altre come se, di colpo, vivendo egli chissà dove, non avesse avuto che brandelli di carta, forse lacerata da certi amici, i topi,che scorrazzano nel suo studio in campagna? Ecco. L’interrogativo, lungo quanto un romanzo, è finito. Ma il lettore, adesso, vuol sapere chi è costui. E perché fa così. Ma soprattutto gli interessa sapere se costui è, o non è, un pittore a noi contemporaneo. L’uomo vive ormai da molti anni in Italia, a Formello, vicino a Roma: è francese. La sua bravura di incisore fu premiata quando ottenne il Prix de Rome a Villa Medici,dove studiava come borsista. Il suo nome Jean-Pierre Velly. Da qualche anno, dopo una memorabile mostra milanese alla galleria Gianferrari il nostro uomo non ha dimenticato la sua bravura di acquafortista ma si è dedicato più ampiamente alla pittura. Soprattutto agli acquerelli e ai disegni. Il suo sistema è quello che ho detto: servirsi di fogli lacerata mangiati o sbocconcellati da egli, stesso in versione di topo – l’artista come topo  incollati su una carta più spessa o un cartone; immaginando che lo spazio sia una pianura talmente vasta da dover ricorrere, all’ultimo minuto, a una sovrapposizione di altra carta. Forse la pianura non gli bastava più; forse l’orizzonte, per avere la profondità dovuta, aveva bisogno, necessità, di essere allungato ancora un po’. O il davanzale sul quale Velly aveva appoggiato come facciamo tutti  un bicchiere con dentro un mazzolino di fiori, non sporgeva come si vede adesso nei quadri, in modo clamoroso. I francesi adoperano una battuta intraducibile: vue imprenable. Offrire una vue imprenable è un modo di dire molto usato, persino negli annunci economici. Esempio: cercasi in campagna con vue imprenable. Ed è a quella imposizione di infinito, a quella perdita d’occhio che può anche offrire sensazioni religiose che il nostro Velly si rifà quando guarda il foglio di carta da lui stesso azzannato in qualità di artista topo;e poi disegna, acquerella, dipinge.

I motivi della sua arte sono: fiori secchi, paesaggi avvolti nella caligine, bruma, foschia, piccola nebbia e, più in là, ai limiti estremi, alla finis terrae il sole. Oppure: nudi femminili, ma anche autoritratti che severamente lo ritraggono mentre una guerra di religione è alle porte; e strane criniere di verde, riviere, o una spettacolare quercia che scende da lassù per arrivare ai nostri piedi. Lo spettacolo è questo. Ed è uno spettacolo minuzioso, entomologico arboreo, giardiniere, da uomo che tutte le mattine si presenta davanti al capanno degli attrezzi, apre la porticina tenuta insieme allo stipite da un filo di ferro, e dopo essersi infilato nel buio - sempre un po’ scricchiolante perché asciutto - del suo laboratorio si comporta così: o resta infilato nella trappola del proprio capanno; o ne esce trascinandosi dietro i boccettini dei colori, un bicchiere pieno di acqua, matite e pennellini molto appuntiti, lamette, e forse, ragnatele. Le stesse che da tempo immemorabile, stanno nella sua testa, fra suoi alti ondeggiane capelli di uomo che produce elettricità, scosse, vibrazioni. Sono convinto che, toccandogli i capelli, Jean-Pierre Velly, al pari di certe acque medicinali, possa, alleviare un dolore, una lombaggine, una addormentatura delle parti, delle altrui anatomie. Quindi: un uomo,oltre che topo, stregone. Così è. L’uomo che potrebbe anche essere scomparso nel capanno buio degli attrezzi è concentrato sul proprio contenuto di artista. Sa di poter contare su una bravura praticamente eccelsa, senza confronti. Ed è proprio questa somma di virtù che lo porta, ineluttabilmente, verso l’altra bravura della pittura fabbricata dagli antichi. Ma, a differenza degli antichi, lui sa che gli antichi sono già esistiti; che Dürer e Altdorfer hanno già compiuto il loro mestiere; lui sente sulle spalle e sulla propria testona di capelli di stregone tutti questi pesi tremendi, e quando decide di innalzare lo stelo di un fiore vede, poco lontano da lui, seduto immobile al tavolino accanto al suo, un uomo che si chiama Albrecht Dürer , bello come un Dio, in pelliccia perché l’inverno non è ancora finito,e trasalisce. E senza far rumore, ma mordendosi le labbra dalla disperazione, Velly cambia rotta, prende un’altra strada, anche se non appena quello stelo di fiore o erba si era alzato sul suo foglio di carta, Velly pensava di costruire una zolla pura e semplice, una porzione del creato così come lo vedono tutti: isolata dal mondo sterminato di un campo pieno di fiori; isolata perché, se vuoi veder bene, devi fissare una piccola parte. Una zolla, non l’eternità. A volte, quando va al bar a bersi un caffè, Jean-Pierre Velly vede, seduto accanto a lui quel tedesco di Germania che beve un caffè e sta zitto. Velly lo imita solo in questo: nello stare zitto. Per tutto il resto il francese sa di non potere, di non volere di non dovere imitare il tedesco. Primo: perché non si fa una cosa simile; secondo perché Dürer è morto mentre Velly è lì, palpitante, elettrico, bravo a competere, bravo a riuscire in quello che fa. 

Questo è il modo in cui un’artista di oggi, che sa benissimo di amare la pittura amica,segue la propria strada, inflessibile, quasi senza piegarsi alla attrazione di un’erba che si è inclinata o sia dritta, e gli rivela che la luce delle sue giornate è diversa da quella di coloro che lo hanno preceduto.



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 A Parme, tableaux et dessins du peintre français 
qui habite l’Italie depuis de nombreuses années

Vellicarsi con Velly

Giorgio Soavi 
Il Giornale, dimanche 28 octobre 1989


Si un peintre dessine des paysages, des herbes et des fleurs traversées de lumière et si sa manière de dessiner ressemble à la façon des peintres antiques, ce seront les détails qui nous révéleront sa modernité, son habilité, vu que celui-ci est apparemment et consciemment « ancien » par le fait même qu’il utilise du vieux papier. Dans certains cas, les feuilles sont lacérées, superposées les unes aux autres, comme si - vivant on ne sait où - il n’avait eu sous la main que quelques petits morceaux de papier, déchiquetés peut-être par certains de ses amis: les souris qui vagabondent dans son atelier à la campagne. Voilà. L’interrogation, aussi longue qu’un roman, est terminée. Mais le lecteur voudrait bien savoir qui est cet artiste. Et pourquoi agit-il de cette manière. Mais surtout il voudrait bien savoir si celui-ci est, ou n’est pas, un peintre contemporain. 

L’homme, qui vit depuis de nombreuses années en Italie, à Formello, près de Rome, est français. Son talent de graveur fut primé quand il obtint le Prix de Rome et séjourna comme pensionnaire à la Villa Médicis. Son nom: Jean-Pierre Velly. Depuis quelques années, après une inoubliable exposition à Milan, à la Galerie Gian Ferrari, notre homme n’a pas (bien sûr) oublié son talent de graveur, mais il s’est plus longuement consacré à la peinture, à l’aquarelle et au dessin. Son système est celui que j’ai décrit précédemment: se servir de feuilles lacérées, mangées ou grignotées par lui-même comme une souris l’aurait fait à sa place. Elles sont ensuite collées sur un papier plus épais ou sur un carton plus grand. En imaginant alors que cet espace soit une vaste plaine, il doit recourir au dernier moment à des superpositions de feuilles supplémentaires. La plaine, peut-être, ne lui suffisait plus; pour obtenir la profondeur voulue, l’horizon avait lui aussi besoin d’être rallongé encore un peu. Ou encore ce rebord de fenêtre sur lequel Velly a posé, comme nous le faisons tous du reste, un verre avec un petit bouquet de fleurs, ce rebord ne ressortait pas de manière aussi excessive comme dans ses tableaux. 

Les Français ont une expression intraduisible: « vue imprenable ». Offrir une « vue imprenable » c’est une manière de dire qui est très employé, jusque dans les petites annonces. Par exemple: « Cherche maison de campagne avec vue imprenable ». Velly se réfère (quand il regarde la feuille de papier qu’il a lui-même mordillé en sa qualité d’ « artiste-souris ») à cette impression d’infini et à cette « perte de vue » qu’offrent le sentiment religieux. Et puis c’est seulement après qu’il dessine, qu’il peint. 

Les sujets de son art sont les fleurs séchées, les paysages noyés dans le brouillard, l’hiver, l’obscurité, la brume, mais plus encore, à l’extrême limite, au finis terrae: le Soleil. Ou bien encore des nus féminins, mais aussi des autoportraits qui le représentent sévèrement alors qu’une guerre de religion est aux portes de la ville. Il y a des étranges crinières vertes, les rivières, ou encore un chêne spectaculaire qui descend de là-haut pour arriver jusqu’à nos pieds... Le spectacle est fait de cela. Et c’est un spectacle minutieux, entomologique et florale qui se présente à cet homme, qui, tous les matins, devant sa cabane à outils, ouvre une petite porte, retenue au montant par un fil de fer. Après s’être introduit dans l’obscurité de son atelier, soit il reste enfermé dans sa tanière, soit il en ressort bientôt, portant avec lui des gobelets de couleur, un verre plein d’eau, des crayons et pinceaux bien affûtés, les lames et peut-être même quelques toiles d’araignées. Ce sont les mêmes qui depuis très longtemps sont dans sa tête, couverte de cheveux bouclés, de ce genre de cheveux d’un homme qui produit de l’électricité, des secousses et des vibrations. 

Je suis convaincu qu’en lui touchant les cheveux, Jean-Pierre Velly, un peu comme certaines eaux médicinales, pourrait bien soulager une douleur, un lumbago, ou provoquer l’assoupissement d’autres parties du corps. Autrement dit, plus qu’une souris, cet homme est un sorcier. Il en est ainsi. Cet homme qui pourrait donc bien pu disparaître dans l’obscure cabane à outils, est concentré sur tout son être d’artiste. Il sait qu’il peut compter sur sa technique pratiquement parfaite, qui est aujourd’hui sans comparaison. Et c’est justement cette somme de talents qui le porte inéluctablement à l’excellence de la peinture des anciens. Mais à la différence des anciens, il sait que les anciens ont déjà existé; que Dürer ou Altdorfer ont déjà accompli leur oeuvre. Lui, en tout cas, ressent sur ses épaules et sur sa grosse tête de sorcier chevelu ce terrible poids. Et quand il décide de soulever la tige d’une fleur (par exemple), il voit non loin de lui, juste là assis et immobile, à la table voisine de la sienne, un homme qui se nomme Albrecht Dürer, beau comme un dieu, vêtu d’une fourrure parce que l’hiver n’est pas encore terminé... et il tressaille. Et sans faire de bruit, mais en se mordant les lèvres de désespoir, Velly change de route, prend un autre chemin, même si cette tige de fleur ou d’herbe s’est déjà matérialisée sur la feuille de papier. En fait, Velly pensait construire une motte de terre pure et simple, une portion de la création comme chacun peut se l’imaginer: une motte de terre isolée d’un monde infini, d’un champs plein de fleurs, isolée, parce que si tu veux bien voir, tu dois te concentrer que sur une petite partie. Une motte de terre, pas l’éternité. 

Parfois, quand il va au bar boire son café, Jean-Pierre Velly aperçoit, assis juste à côté de lui, cet allemand qui sirote son café et reste silencieux. Et si Velly l’imite, c’est dans le seul fait de rester silencieux. Pour le reste le français sait de ne pas pouvoir, de ne pas vouloir et de ne pas devoir imiter l’allemand. D’abord parce qu’une chose semblable ne peut se faire, ensuite parce que Dürer est mort alors que Velly est bien vivant, palpitant, électrique, prompt à rivaliser, prompt à réussir tout ce qu’il entreprend. 

Voilà comment un artiste d’aujourd’hui, sachant qu’il aime la peinture ancienne, suit sa propre et inflexible voie, sans plier sous l’attraction d’un brin d’herbe qui s’incline ou reste droit et lui révèle que la lumière de ses journées est bien différente de celle de ses prédécesseurs. 

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