Velly     Giorgio Soavi (1991)
 
 
Giorgio Soavi

Bellezza antica

in “il Giornale nuovo», Milano, 6 gennaio 1991.

Dopo che Picasso ha distrutto la bellezza, cosa resta della bellezza? Noi accettiamo quella antica greca o romana e Picasso si fa ammirare proprio nella Suite Vollard quando incide come un vasaio greco. Ma adesso che tutto è spezzato, cosa salviamo della bellezza che non sia antica?

Andiamo in giro con il naso per aria, annusando le nuove forme. Siamo passati attraverso la bruttezza, le forme dell’Africa nera, ci siamo affezionati ai feticci per essere un poco devoti anche ad altre divinità: non si può amare soltanto l’arte italiana: Antonello, Piero, Giotto, Cimabue e decidere che la religione è tutta là. La religione è anche - più che mai- in Grünewald, in Altdorfer, Cranach, nei tedeschi e negli olandesi, la religione ha talmente bisogno di noi – siamo qui, infatti - che spalanca la propria pittura indicandoci nuove orme di bellezza e di dolore: più che di forme si tratta di eresie, cambiamenti, irregolarità. Eppure, tutto questo è bello come scrisse Ben Shahn sotto un proprio disegno di un paesaggio di tetti pieno zeppo di antenne televisive.

Siamo qua. Abbiamo sempre un gran bisogno, di respirare guardando la pittura. Ma non sappiamo dove cominciare per dire: la bellezza è qua, e l’artista che l’ha inventata era vivo, fino a pochi mesi fa viveva in Italia, no non è italiano è francese, ma stava da noi e faceva esattamente come noi provava a rimettere insieme la bellezza. Era convinto che un albero fosse una fonte di luce e di ombra: e che disegnando le mille foglie della parte bassa di quell’albero sarebbe riuscito a mettere in ombra, la parte bassa delle foglie, esattamente come è l’interno di una mano: sempre un poco più chiara, più pallida e anche più debole del dorso.

L’albero che lo aveva attratto tanto circonda una villa che sta dalle parti di Sutri. Mi piace pronunciare la parola Sutri, perché quel nome si lega alla storia antica, evoca monete antiche, e il suono che possiamo immaginare tra gente che parla un incomprensibile dialetto e si scambia delle monete non può non inondarci di emozioni che credevamo perdute.

Dunque: è una villa che sta da quelle parti ed è circondata da un bosco e da uno strapiombo. Di fianco a lei c’è una specie di vallata inondata dalle ombre e dai raggi del sole che laggiù in fondo è al tramonto. J.P. Velly aveva fermato il momento in cui l’ombra e la luce cercano di stare diritte in piedi anche se tutta la giornata si sta coricando. I cuscini per guardarla non stanno né dalla parte della villa ne dall’altra, dove c’è il sole al tramonto. E meno che mai potrebbero stare nell’orrido di quello strapiombo che circonda la casa. Là sotto, ormai, è ombra fitta, c’è umido tutto è gocciolante. Fosse coltivata sarebbe una serra. Ma gli abissi non hanno coltivazioni- e meno che mai i cuscini sui quali sdraiarsi per guardare la fine di una giornata. Unico posto dove possono stare è davanti al quadro. Deve essere per questo motivo che il suo autore Jean-Pierre Velly, francese, in Italia, aveva costruito un quadro così lungo perché chi lo guardasi possa mettere comodo a guardarlo. La vittoria della pittura sulla vita sta in questa possibilità: di restare sdraiati a guardare, di tornare il giorno dopo se eravamo stanchi, o di immaginare tutto.

Mi succede spesso di immaginare un paesaggio e credo che l’immaginazione sia l’elemento che mi convince sopra tutti: credere di essere stato in un luogo. Ricordare, senza avere sotto il naso un bel niente. In relazione all’esistenza del sole e dell’ombra mi viene in mente che le corride dividevano gli spettatori con lo stesso concetto. I biglietti dividevano il pubblico secondo l’ombra e la luce. I tori, il matador, il suo bel vestito, le macchie di sangue, erano il terrificante contorno.
Ma la vera sorpresa stava nella luce e nell’ombra contenuta, raccolta in quel cestino di sabbia e di polvere che è l’arena, la plaza de toros.

Gli ultimi quadri senza tori inventati da Velly,- e come potrebbe un francese, anzi un bretone che viene dal Finis terrae osare di misurarsi con un toro? - ha tuttavia la sua brava quantità di spavento. Anzi: lo spavento corre lungo tutto il percorso e questo potrebbe essere il dettaglio che rende indispensabile il lavoro di un artista a noi contemporaneo. Velly sapeva disegnare la bellezza antica perché disegnava volti piante e fiori alla maniera di un pittore antico. Come faceva allora a essere uno dei nostri? Come ha fatto per farci sapere che lui non scrive su pergamena e non va a cavallo ma usa il telefono e l’auto, beve vino buono o cattivo come tutti i contemporanei e quando ha il mal di testa butta giù un paio di aspirine? Semplice: comunica il terrore dell’esistenza in un paesaggio correttamente antico. Attacca il filo spinato o quello della corrente elettrica ai nostri cuscini e ci lascia lì. Sapremo bene come fare. Staremo attaccati alla bellezza del creato - gli elementi sono eterni: l’ombra e la luce, gli alberi e il sole, il verde della campagna, le curve e gli anfratti, lo strapiombo proprio accanto alla casa - increduli che sia proprio vero.

A quel punto, ci chiederemo: sembra un grande pittore. Ma come fa ad essere un grande pittore se è nostro contemporaneo? I pittori non avevano - hanno – distrutto la bellezza perché non si credesse che questa messa in piedi da uno come Velly sia semplicemente la replica; la replica beata dell’ordine delle cose, la replica di un paesaggio che ci è stato offerto, tanto tempo fa, da altri pittori che rispettavano resistenza del creato così com’era? 

Allora: è mai possibile essere contemporanei quando si è bravi come un pittore antico? Semplice, sembrano avvertirci i quadri di J.P. Velly. Basta esprimere disagio e paura, indicare che stiamo guardando la fine di qualcosa che l’artista ha individuato bene: la tensione che c’è nello spazio che corre tra l’ombra e la luce, la paura o il disagio che tutto sparisca mentre noi siamo ancora là. La paura o il disagio di non essere andati via prima, prima che tutto finisse, nei paraggi di quella cosa sepolcrale che è il buio totale.


















Giorgio Soavi

Beauté antique

dans “il Giornale nuovo», Milan, 6 janvier 1990.
traduction: P.H.


Après que Picasso ait détruit la beauté, que reste-t-il de la beauté? Nous acceptons celle des Grecs et des Romains, et Picasso la fait admirer dans la suite Vollard, quand il grave tel un potier grec. Mais maintenant que tout est détruit, comment sauver la beauté qui n’est pas antique ?

Allons faire un tour, le nez en l’air, reniflant des nouvelles formes. Nous sommes passés à travers la laideur, les formes de l’art africain, nous avons pris en affection les fétiches pour être un peu dévot auprès d’autres divinités. On ne peut pas seulement aimer l’art italien : Antonello, Piero, Giotto, Cimabue, et décider que la vraie religion soit seulement celle-ci. La religion est aussi – plus que jamais – chez Grünewald, chez Altdorfer, Cranach, chez les Allemands et chez les Hollandais ; la religion a aussi tellement besoin de nous – nous sommes là, en effet – qui renverse la peinture, nous indiquant des nouvelles frontières de beauté et de douleur. Plus que de formes il s’agit d’hérésies, changements, irrégularités. Et cependant, tout cela est beau, comme l’écrit Ben Shahn, sous un de ses dessins de paysages de toits rempli d’antennes de télévision.

Nous sommes là. Nous avons toujours grand besoin de respirer regardant la peinture. Mais nous ne savons pas où commencer pour avouer: la beauté est ici, et l’artiste qui l’a conçu était vivant jusque très récemment, et vivait en Italie. Il n’était pas italien, mais français, mais il vivait chez nous et faisait exactement comme nous, il essayait de restaurer la beauté. Il était convaincu qu’un arbre était une source de lumière et d’ombre : et que dessinant les milliers de feuilles de la partie basse de cet arbre, il aurait réussi à mettre de l’ombre dans cette partie basse, exactement comme est l’intérieur d’une main : toujours un peu plus claire, plus pâle, et plus faible que le dos.

L’arbre qui l’avait autant captivé entourait une villa qui se trouve dans les environs de Sutri. J’aime prononcer le mot de Sutri parce qu’il est lié l’histoire ancienne, il évoque une monnaie antique, et le son que l’on imagine de ces gens qui parlent un dialecte incompréhensible, s’échangeant des monnaies, ne peut que nous inonder d’une émotion que l’on croyait perdue.

Donc : cette villa qui se trouve là est entourée d’un bois et d’un précipice. Sur un de ses cotés, il y a une sorte de vallée inondée d’ombres et de rayons du soleil, qui là-bas au loin devient le crépuscule. Velly avait arrêté le moment où l’ombre et la lumière cherchent à se stabiliser, même si la lumière de la journée est déjà en train de disparaître. 

Les coussins pour la regarder ne sont ni dans la villa, ni de l’autre coté, là où le soleil se couche. Et moins que jamais pourraient-ils être dans l’infernal précipice qui entoure la maison. Là, en dessous, c’est l’ombre obscure, il fait humide, tout est ruisselant. Si c’était cultivé, on en ferait une serre. Mais on ne cultive pas les abysses – et a fortiori elles ne possèdent pas de coussins sur lesquels on pourrait s’allonger pour admirer la fin de la journée. L’endroit unique où l’on peut être est devant le tableau. Ce doit être pourquoi notre artiste Jean-Pierre Velly, français en Italie, avait conçu un tableau si allongé afin de consentir au spectateur une vision très confortable.

La victoire de la peinture sur la vie est dans cette possibilité : de rester couché à regarder, de revenir le lendemain si on est fatigué, ou encore d’imaginer le tout.

Il m’arrive fréquemment d’imaginer un paysage, et je crois que l’imagination soit l’élément qui me convainc par-dessus tous : croire que l’on a été dans un lieu. Se souvenir sans avoir rien devant les yeux. En relation avec l’existence du soleil et de l’ombre il me vient à l’esprit que les corridas divisent les spectateurs selon ce même schéma. Les billets divisent le public entre l’ombre et la lumière. Les taureaux, le matador, son beau costume, les taches de sang en sont les garnitures terrifiantes. Mais la vraie surprise est dans la lumière et dans l’ombre contenue, recueillie dans ce panier de sable et de poussière qu’est l’arène, la plaza de toros.

Les derniers tableaux conçus par Velly, sans taureaux – et comment un français, un breton de surcroît qui vient du Finis Terrae oserait se mesurer à un taureau ? – ont cependant une certaine dose d’épouvante. On pourrait même dire que l’épouvante chemine tout le long de son parcours, et ce détail pourrait être même indispensable au travail de l’artiste contemporain. Velly savait dessiner la beauté antique parce qu’il dessinait des visages, des plantes et des fleurs à la manière d’un peintre ancien. Comment faisait-il alors pour être des nôtres ? Comment faisait-il pour nous faire savoir qu’il n’écrivait pas sur du parchemin, qu’il n’allait pas à cheval, mais qu’il utilisait le téléphone et la voiture, et buvait du vin (bon ou mauvais) comme tout le monde, et que quand il avait mal à la tête, il avalait deux aspirines ? C’est simple : il communique la terreur de l’existence dans un paysage parfaitement ancien. Il attache du fil de fer barbelé ou électrique à nos coussins et les laissent là. Nous saurons quoi en faire. Nous serons attachés à la beauté de la création – les éléments sont éternels : l’ombre et la lumière, les arbres et le soleil, le vert de la campagne, le précipice à coté de la maison – médusés que tout cela soit bien vrai.

Arrivé à ce moment, nous nous interrogeons: il semble qu’il soit un grand peintre. Mais comment fit-il pour être un grand peintre s’il est notre contemporain ? Les peintres avaient – ont – détruit la beauté parce qu’ils ne croyaient pas – comme Velly -  à la réplique de ce qui est, la réplique béate de l’ordre des choses, à la réplique d’un paysage qui nous a été offert il y a très longtemps, par d’autres peintres qui respectaient la résistance de la nature comme est l’est ?

Alors : est-ce vraiment possible d’être contemporain quand on est aussi talentueux qu’un peintre ancien ? Facile semblent nous dire les tableaux de Jean-Pierre Velly. Il suffit d’exprimer le malaise et la peur, d’indiquer que nous sommes en train de regarder la fin de quelque chose que l’artiste a bien remarqué : la tension qu’il y a dans l’espace qui sépare l’ombre et la lumière, la peur et le malaise que tout disparaisse pendent que nous soyons présents. La peur et le malaise de ne pas être parti avant, avant que tout ne disparaisse dans les parages de cette chose mortifère qui est l’obscurité totale.
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