Velly      Ivana Rossi (1989)
 
 

Le incisioni di Jean-Pierre Velly


Ivana Rossi (1989)

in Annuario della Grafica n° 19, Giorgio Mondadori




Quale sia il segreto impatto che un’opera d’arte fantastica suscita nello spettatore, quale inquietudine, quale senso di spaesamento, quale perdersi e ritrovarsi: questi ed altri sentimenti conosce chi quest’arte prima ancora di ammirare e rispetta e sa ascoltare nel linguaggio che le è proprio. Un linguaggio nel quale si è mosso fin dall’inizio anche Jean-Pierre Velly, un artista che merita attenzione e considerazione per l’assoluta originalità delle sue incisioni, per la novità che vi e contenuta e, non ultimo, anche per gli inquietanti temi che la sua opera tratta, con tutte le implicazioni che vi sono connesse.


Nato a Audierne nel 1943, Velly ha dapprima frequentato la Scuola di Belle Arti di Tolone, poi quella di Arti Applicate e la Scuola Nazionale Superiore di Parigi. Ma ad un certo punto ha preferito abbandonare la Francia e si e trasferito in Italia, stabilendosi a Formello, un antico borgo medievale nella campagna romana.


Prima di allora tuttavia aveva già avuto modo di conoscere l’ambiente artistico italiano, poiché nel giugno del 1966 aveva ricevuto il «Premier Grand Prix de Rome» per l’incisione e, inseguito, aveva preso parte insieme a Balthus ai lavori all’Accademia di Francia di Villa Medici; come riconoscimento per il lavoro svolto in quegli anni gli venne assegnato al Petit Palais di Parigi il «Grand Prix des envois de Rome».


Velly fin dall’inizio della sua attività si è dedicato prevalentemente all’incisione, scegliendo fra le varie tecniche quelle calcografiche (soprattutto bulino, acquaforte e puntasecca), affascinato dalle possibilità di linguaggio che offrivano e interessato ad indagare le possibilità chiaroscurali di quelle tecniche. Scelse fin dall’inizio solo il bianco e nero disdegnando di eseguire opere a colori. Nelle sue incisioni il tratto si addensa in neri profondi per vibrare nella molteplice gamma dei grigi ed aprirsi nei bagliori dei bianchi creando quell’atmosfera intima e suggestiva che e tipica delle sue composizioni.


Alla base della creatività di J.P. Velly si avverte una sensibilità di origine nordica che affonda le sue radici nella tradizione fantastica e si ricollega ai maggiori artisti del passato medievale e del tardo manierismo, da Schongauer, Dürer, Bosch, Altdorfer, Cranach a Bruegel le Drôle e al paesaggista olandese Hercules Seghers, fino ad arrivare al mondo visionario dell’artista romantico Rodolphe Bresdin, a Max Ernst e agli artisti dell’espressionismo tedesco.


Ciò che caratterizza in genere le incisioni di Jean-Pierre Velly è l’aspetto fantastico, che si esprime attraverso la visione di paesaggi in cui l’occhio dell’osservatore si perde ad inseguire le linee dell’orizzonte, distese di rocce e vegetazione che si confondono con ammassi di rifiuti e di rottami, figure di uomini e donne trasfigurati dal tempo, corpi lacerati, volti scolpiti dai ricordi, visioni apocalittiche in cui si compenetrano e si amalgamano elementi di varia natura.


Velly libera così la propria fantasia, creando uno spazio irreale, ma anche intensamente spirituale, incidendo paesaggi trasfigurati, nei quali, trovano posto la grandiosità della vita e della morte e l’enigma dell’essere; in essi le forze della natura si mescolano in una fusione cosmica continua che ingloba anche il più piccolo angolo del cosmo, il più piccolo granello di materia. In questo senso si può parlare anche di religiosità, senza doversi necessariamente ricollegare ad una fede esistente; religiosità, quindi, come espressione di un limite alla comprensione umana del mistero dell’esistenza, quasi una contemplazione di fronte al creato. Senso di religiosità a cui si unisce forse una sottile ironia che vuole sottolineare la sciocca presunzione dell’uomo convinto della propria superiorità su tutti gli esseri viventi, padrone assoluto della vita sulla terra; un avvertimento insomma alla vanitas umana e all’inutilità delle scelte di alcuni valori di vita, che sono in realtà solo gioie effimere di breve durata.



















Questa considerazione dell’uomo teso a conquistare i beni materiali che possono conferirgli uno status sociale, senza soffermarsi a riflettere su fatti moralmente più importanti, limitato da una meschina ed egoistica visione della vita, si riflette già nella serie di incisioni del 1964 -1965 intitolata Grotesque e nell’incisione Illustration pour un conte (1965); non si tratta come si potrebbe credere, di una polemica nei confronti dell’uomo, bensì del desiderio di sottolineare la precarietà della vita umana in relazione al trascorrere del tempo. Secondo Velly, l’uomo considera il tempo come un’unità di misura della propria vita e della corrosione che si verifica in ogni aspetto della realtà, senza meditare sul fatto che il tempo è un elemento unico e continuo e che è l’uomo stesso a corrodere ogni cosa.
















Nelle due incisioni La clef de songes (1966) e Vieille femme (1966) Velly sembra cogliere proprio il momento di riflessione e allo stesso tempo l’indifferenza con cui le due protagoniste guardano al tempo trascorso: nel primo caso, una donna ancora giovane siede impassibile e disinteressata, quasi sospesa su un mucchio di rottami da cui fuoriescono radici e rami contorti di alberi inariditi dal corso delle stagioni; nel secondo, una donna vecchia, disfatta dagli anni e segnata dalle rughe, si abbandona a ricordi che non hanno ormai più alcuna importanza.



















Un altro esempio di questa stessa tematica è offerto da Mascarade pour un rire jaune incisa nel 1967 (fig. I): il dramma del tempo che passa si coglie nei volti ironici e beffardi di persone ormai  morte e dimenticate, i cui ricordi sembrano affiorare da una tumultuosa battaglia, mentre il variare dei secoli pare quasi non lasciare alcuna traccia nell’infinità serena della natura.


Il tema del tempo, molto caro all’artista è strettamente connesso a quello della trasformazione e della corrosione delle cose; per Velly, tutto è corrosione, corrosione del tempo, dei luoghi dove viviamo, corrosione della mente, trasformazione di uno stato da meglio in peggio o, viceversa, da peggio in meglio. La natura è un esempio continuo di trasformazioni e non esiste alcuna legge naturale che stabilisca quale stato di un elemento debba ritenersi migliore, anche se l’uomo, in virtù della propria presunzione, ha cercato di imporre un criterio di giudizio.






























Affascinato da questa continua trasmutazione dei vari elementi organici, vegetali o meccanici, Velly ha voluto metterne in risalto il processo realizzando nel 1970 la serie Métamorphose, comprendente quattro incisioni. In Métamorphose III (fig. 2), ad esempio, la composizione sembra tagliata in due parti da una diagonale, quasi ad evidenziare maggiormente sullo sfondo bianco la cascata senza fine, in cui si distinguono e si allungano deformandosi e compenetrandosi, gli uni con gli altri, elementi di varia forma e specie; il vortice continuo di figure umane, di animali, di oggetti, di forme vegetali si fonde in un tutto unico trascinando con sé ricordi, pensieri, persone, resti di vita senza distinzione alcuna di fronte alla totalità dell’essere e del divenire. Il segno preciso del bulino si accompagna qui alle tecniche dell’acquaforte e della puntasecca, creando un particolare effetto chiaroscurale nel rimbalzare continuo dei bianchi, dei neri e nei confronti dei grigi.


Del resto, le incisioni di Jean-Pierre Velly sono sempre caratterizzate dall’uso di una tecnica raffinata; dalla punta del suo bulino prendono vita i più piccoli e precisi dettagli che popolano con sapienza calibrata lo spazio definito delle sue composizioni, quasi a testimoniare un’antica minuzia di sapore fiammingo.




















Il tema della metamorfosi traspare in molte altre opere, tra cui: Valse lente pour l’Anaon (1967),


















Esquisse Triptyque (1967),




















N’amassez pas les trésors (1970),  corpo in mutamento (corde, oggetti metallici, elementi antropomorfi e vegetali, arti e organi, reticoli di vene ed arterie, piccole figure di animali).


La metamorfosi del corpo della donna continua e si ripete nel rinnovamento degli elementi naturali, terminando con l’apertura dell’orizzonte sullo sfondo, su cui si irradia la luce del sole, quasi in un canto alla vita. I temi dello scorrere del tempo e della metamorfosi della vita sono, unitamente al paesaggio, i poli centrali della «poetica» dell’artista.


Il paesaggio si può forse considerare il tema più ricorrente nelle opere di Velly, sia esso elemento centrale o semplice sfondo della composizione; l’artista lo trasforma in spunto per le proprie riflessioni, caricandolo di tensione emotiva, di un senso di inquietudine e incertezza, quasi che esso rifletta il contrasto tra la minuscola dimensione umana e l’infinita varietà del cosmo.























I paesaggi di Velly si estendono a perdita d’occhio, passando dalla veduta del mare che vibra nell’innalzarsi delle onde verso il cielo coperto di nuvole (Le ciel et la mer, 1969),



















ad immensi altopiani d’erba, fiori e piante (Paysage plante, 1971;




















Petit Paysage 1972), atti a simboleggiare la contaminazione delle forze della natura. Altre opere sono caratterizzate da visioni di cumuli di rottami, di macchine distrutte, ingranaggi, corde, tubi, oggetti comuni, che divengono simboli di una civiltà che nasce e si disperde con l’andare del tempo, lasciando come suoi eredi e testimoni gli oggetti più insignificanti.








































































Ville détruite, 1971


A completamento di simili paesaggi non potevano mancare visioni apocalittiche e cosmiche, dove si compenetrano indifferentemente oggetti e uomini, ricordi del passato e del presente.



















Après, 1971



















Enfin, 1973






















Un point, cest tout 1978



Infine, il paesaggio si carica di forte drammaticità nell’incisione























Massacre des innocents (1970-1971)


in cui la corsa senza fine degli uomini suscita nello spettatore un senso di ansia e turbamento.


La profonda e complessa riflessione sulla vita che sta alla base dell’arte di Velly segna ogni sua opera: così, in Enfin (fig. 5) il turbinio vorticoso di elementi che ruota attorno ad un unico spazio vuoto vuole essere una meditazione sulla misteriosa origine di ogni cosa;





















in Paysage aux autos del 1969 (fig. 6) il balenio di luce bianca dei rami intricati degli alberi contrasta con i rottami delle auto e delle macchine e la vista si perde nel succedersi dei passaggi chiaroscurali, che conducono l’occhio ad orizzonti più aperti, quasi ad avvertire l’uomo della sua presunzione e dell’esistenza di un limite oltre il quale non è possibile andare.




Dal 1980 circa, Velly si è dedicato con minor intensità all’attività di incisore, volgendo la sua attenzione anche ad altre tecniche artistiche, quali il disegno, l’olio, l’acquerello.


Dopo avere eseguito nel 1978 i suggestivi acquerelli ispirati dalle poesie del poeta «maledetto» Tristan Corbière, egli ha presentato nel 1980 la serie intitolata Bestiaire perdu, introdotta dai suoi versi poetici; in quest’ultima occasione egli ha sottolineato con maggior forza la pretenziosità dell’uomo che si elegge re della creazione, favoloso prodotto dell’evoluzione della natura, e si sente perciò in diritto di sfogare la sua viltà con la violenza su alcuni animali da lui rifiutati, perché ritenuti inferiori, quali ragni, topi, civette, serpi, scorpioni, pipistrelli.




















Nel 1984, sono i fiori a divenire soggetto dei suoi acquerelli con la serie Au-delà du temps; in essi, la natura morta vibra nella luce delle tonalità calde e fredde e diventa motivo di riflessione sul senso della vita e della morte; la carta antica stropicciata prima di essere usata si popola così di campanule, di lunaria, di rovi, della buganvillea e del glicine, immersi in suggestive atmosfere.






















I dipinti realizzati tra il 1985 e il 1986 riprendono lo stesso tema dei fiori e del paesaggio: la luce diventa in queste opere l’elemento determinante e caratterizza lo sfondo della composizione, illuminandola con improvvisi squarci e metallici bagliori.





























L’ultima mostra di Velly, tenutasi a Roma nell’aprile del 1988, ha presentato oli, acquerelli e disegni, i cui soggetti (alberi, nudi femminili, autoritratti, alcuni paesaggi e nature morte) rivelano ancora la forte drammaticità e la carica suggestiva racchiusa in questo artista, che con la propria opera sembra quasi voler ammonire l’uomo a riflettere sul mistero dell’esistenza.




































L’opera di Velly è una poesia senza inizio né fine, è una comunicazione tra conscio ed inconscio, tra vita e morte, è la riflessione di un attimo prima della distruzione che volge tutto in un marasma confuso; in ogni sua opera domina però un silenzio profondo, scandito dai mille attimi di vita racchiusi in ogni più piccolo oggetto inciso dalla punta precisa del suo bulino.


La sensibilità e la grandezza di Velly stanno proprio nella capacità di cogliere l’attimo che intercorre tra la vita e la morte, di imprigionare in un’immagine tutto ciò che il tempo trasforma, anche il più piccolo granello di materia, come del resto l’uomo stesso che è un minuscolo punto nell’orizzonte infinito dell’universo.



Ivana Rossi

Le incisioni di Jean-Pierre Velly

in Paolo Bellini (a cura di), Grafica.

Annuario della Grafica in Italia, n. 19

Giorgio Mondatori & Associati, Milano, 1989, pp. 63-66.


 

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