Velly  Catherine Velly     Mio padre

 
 

La chiave dei sogni sulla porta del mondo

Jean-Pierre Velly, mio padre


Catherine Velly


Quando, bambina, entravo nello studio di Jean-Pierre Velly, mio padre, ero inebriata ed avvolta da odori diversi. Quelle indescrivibili note… ora morbide e vellutate, ora più acidule e aspre dei materiali e delle essenze usate nella pittura. Colori ad olio, trementina, olii vari, un mélange tutto particolare: le essenze degli artisti. Un po’ le essenze della loro vita. Perché è così che oscilla spesso la loro esistenza, tesa e sospesa tra gli odori e i colori del mondo. Tra gli oggetti di tutti i giorni. Così Catherine, la bambina che ero allora, entrava nello studio, per decisione consapevole o per istinto, sapendo che là si raccoglievano le cose del mondo, se ne ricreavano i colori e gli odori. Punte di selce ritrovate sulle spiagge bretoni, carcasse di antichi e strani esseri marini, scheletri di rassicuranti e comuni esseri della nostra epoca: lo spazio in cui mi addentravo era una vera e propria camera delle meraviglie, la Wünderkammer degli antichi, appassionati dell’Universo e insaziabili curiosi del Creato. Così, in un tuffo dimensionale, lo studio ripercorreva il tempo e lo spazio del mondo e in un microcosmo che affascinava, incuriosiva e ammaliava.

E fra le cose e gli esseri del nostro tempo e quelle di un tempo andato, c’erano anche le più reiette, i grandi esclusi dalla stima degli umani: il ratto inchiodato, il rospo schiacciato, l’insetto immortalato e cristallizzato in una simulazione di morte, nell’ultimo grido e disperato tentativo di vita. Uno spazio non era negato neppure all’insetto vivo: il ragno, che, nel palcoscenico della sua tela, presentava lo spettacolo del microcosmo nel quale il mondo intero si ritrova; papà non amava toglierli, diceva che oltre a non dargli fastidio erano preziosi aiutanti di una meravigliosa catena. Da bambina ero terrorizzata da quei figli di Aracne cosi agili e silenziosamente laboriosi, inquietanti; col tempo ho capito che per lui erano protagonisti di un teatro troppo vero per soccombere alle nevrosi di certe scope domestiche. Oggi l’atavico terrore di bambina è rimasto, ma la meraviglia ed il rispetto del microcosmo prevale. Mio padre mi ha insegnato a non ucciderli mai. Così, quando proprio la presenza dei temuti ospiti mi disorienta perché a me troppo vicini, con coraggio e delicatezza propongo loro un diverso e più lontano alloggio, pur sapendo che tanto, prima o poi torneranno a farmi visita, perché il ciclo continua, per fortuna. E nella flânerie di me bambina in quello studio, spazio di meraviglie e di conturbanti e temute presenze, lui, il re della notte, il pipistrello, cristallizzato con la sua anima nera in quella mitologia notturna, affascinante e inquietante, “difficile”, e non accettato da tutti. E della notte incarnata dal pipistrello, mio padre, come molti artisti, visse le più profonde rivelazioni e i più cupi tormenti; la notte, apparente libertà dell’artista, può anche costituire la sua gabbia, una sorta di condanna, per la quale Velly scriveva: “le noir de mes jours vient du blanc de mes nuits”. E così giravo, bambina, e curiosavo fra tutte queste cose del mondo, micro e macrocosmo riuniti in un tripudio di vita e di morte, dove le convenzionali e regolari mitologie diurne delle umane genti, di notte lasciavano voce a questa cosmogonia di pipistrelli inchiodati, civette imbalsamate e piccoli rospi, uccisi dalla tecnologia delle macchine che attraversano i paesaggi, squarciando le loro notti con i fari.


Ed ecco Paysage aux autos, una delle incisioni che con Tas d’ordures fa di mio padre un autore tutto contemporaneo, narratore del suo tempo, di quelle macchine invadenti e rumorose e dei rifiuti ingombranti e scomodi, con cui l’impero della plastica e della latta stava oscurando l’orizzonte. Lui stesso ribadì più volte di essere, nonostante l’amore per le tecniche degli antichi che con metodo e disciplina portava avanti, una persona vivente e parlante della sua epoca.

Siamo sempre e per forza figli del nostro tempo, con la mente e la carne. Le nostre sensibilità, poi, avvertono altre temporalità, anacronistiche, le vivono e le soffrono, e così era lui, così era mia madre, anch’ella artista. Perché così sono gli artisti, i poeti del mondo. E questi miei genitori, “poeti del mondo”, amarono il sensuale e magico Paysage Romain, che in un lontano passato, all’apice del fascino e dell’attrazione magica e incantatrice esercitata dall’Italia, aveva sedotto numerosi artisti del Grand Tour. Proprio un Grand Tour fu il loro, che scelsero un piccolo e tranquillo borgo alle porte di Roma, intriso di memorie etrusche imprigionate nel tufo e di una magia cosmica e naturale, sprigionata dai muschi, che a Natale andavamo a raccogliere per il presepe, e dagli antichi e nerboruti alberi, presenze familiari in tutto l’alto Lazio. Da sempre questi maestosi signori dei boschi incantavano mio padre, mentre passeggiava con suo nonno nei boschi bretoni, ascoltando le leggende celtiche che quel carismatico ex marinaio gli raccontava.

Quella loro atavica, ancestrale possanza era la scenografia di sensuali ed inquietanti immagini, che dai racconti celtici si sviluppavano nella sua fantasiosa e fervida mente di bambino, lo sovrastavano ed avvolgevano nei sentieri scavati e ricavati nella terra e nel tempo. Una catturante mitologia bretone raccontata in magici luoghi carichi di un’energia magnetica, come quei Petits chemins creux di cui ancora parla estasiata mia zia Anne-Marie, una delle sue due sorelle; come lei stessa ricorda, sono questi gli elementi fondamentali per capire lo spirito, l’essenza più profonda della poetica di artista e di uomo di Jean-Pierre. E dalla sua Bretagna di bambino, papà ritrovò quei nerboruti e anziani giganti di gioventù nei boschi della Provenza francese; da uomo li re incontrò anche in Italia, a Formello e nella campagna laziale. Continuarono a parlagli in quel loro misterioso ed oscuro linguaggio, e lui ne tradusse per noi, in ogni ramo ed in ogni foglia, nei tronchi stanchi e spezzati, o vittoriosi ed inorgogliti dal tempo, una mirabile imago di artista: la più incantevole e commovente poesia della “complessa semplicità” del cosmo. Sempre, mentre tornavamo da gustosi pranzi in ristoranti nei dintorni di Formello, mi invitava ad osservare gli alberi, a notare come quella naturale bellezza, apparentemente semplice ed immediata, fosse in realtà il magico ma ben organizzato risultato di un sistema complesso e perfetto. Quella loro universalità, potente e maestosa, era un’armonica danza fra semplice e complesso, una dialettica fra il frammento ed il tutto, un dialogo fra le parti che la pazienza e maestria della sua mano

orchestrava come la più tormentata e riuscita delle sinfonie.

Papà e mamma negli anni Settanta decisero di vivere a Formello proprio per fuggire quel Paysage aux autos che disturbava la loro sensibilità di sismografi del mondo: erano tutti e due capaci di far vibrare le corde dello spazio e del tempo come poeti del passato, e acuti osservatori del presente. Erano profeti del futuro. Scelsero un piccolo borgo, ancor oggi a dimensione umana, nonostante il minaccioso Paysage aux autos lo abbia raggiunto, e si sia compiuta la sua metamorfosi in dormitorio-satellite di una caotica capitale.


Qui io e mio fratello Arthur siamo cresciuti, nutrendo le nostre anime e i nostri corpi di corse fra i vicoli e la campagna tufacea e muschiosa, attraversata dall’antica via Francigena, battuta per secoli da pellegrini e artisti a caccia di immagini. Qui ci siamo nutriti di leggende e di aneddoti, di racconti popolari che la fantasia di mio padre rielaborava in maniera personale e arguta. Le storie accompagnavano i nostri passi quando, con papà ed Arthur andavamo per la campagna e i boschi del Sorbo a raccogliere mazzetti di fiori di campo, il crescione, il muschio e, sempre, le prime violette di marzo per mamma.


Questa è stata l’infanzia che i nostri genitori ci hanno regalato, tra misteriosi boschi etruschi e pittoreschi vicoli, vociferanti di paesani e “comari”, ora pestifere ed acerbe, ora vere e genuine.

Così il tempo e lo spazio di noi figli si avvicinava sempre più, inesorabilmente, a quello degli adulti. Entrammo in quel mondo quasi improvvisamente, con ancora addosso i nostri vestiti di bambini, dei figli che eravamo, e che in qualche modo, nel tempo siamo rimasti.

Una delle cose che mio padre amava fare di più con me nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza, oltre a passeggiare con lentezza nella campagna, o nelle città che amava, dense di storia e di memorie vive, era leggere quello che scrivevo. Amava che gli portassi ciò che, per dovere scolastico o per diletto, era stato messo in “forma” dalla fantasiosa e curiosa mente di una bambina, sempre più rivolta a certe domande su meraviglie e stranezze del mondo. Non ho mai scritto su di lui, fino ad ora. Forse l’ho fatto indirettamente quando, ormai adulta, ho coronato il piacevole dovere degli studi o il puro diletto della parola scritta, sempre pensandolo e ricordandolo. Trovavo così nelle sue “immagini” incise, disegnate o dipinte, memorie e connessioni, che hanno continuato a parlarmi anche nel Tempo che lui non ha avuto. Di quel tempo in cui si è consumata la sua breve vita, però, mio padre ha avvertito le scosse profonde, ha sentito, nel mare apparentemente calmo e beato del consumismo, l’onda devastante della banalità e dell’alienazione umana, distogliendone lo sguardo per rivolgerlo alla semplicità e purezza assoluta del processo creativo e dell’Universo.


Ora, per la prima volta, mi trovo a scrivere su di lui. E non è facile. Ad alcuni brani del vissuto proprio non riusciamo a dare forma. Non è una premessa per giustificare ed avallare il caos mnemonico ed emozionale dei pensieri pulsanti di una figlia, che, ingombra delle cose che si dovrebbero e vorrebbero dire, cerca di ordinarli in una organicità necessaria. Questo non è un saggio critico su mio padre, al quale hanno dato e ancora danno voce insigni autori e personaggi del campo. Scrivo sulle trame dei ricordi della bambina fantasiosa che lo ha vissuto e amato e dell’adolescente in lotta che lo ha perso, proprio mentre tentava di decifrarlo e di farlo ancora più suo. Scrivo nel tempo della donna che ormai sono e che lo ammira e lo rimpiange non solo e non tanto per se stessa, ma per il tempo e il mondo che lui, e mia madre, non hanno potuto avere.

Ai nitidi e perpetui echi dell’infanzia si aggiunge la voce della persona che sono diventata, che cerca sempre di non dimenticare mai il meraviglioso e assoluto mistero dell’esistenza: uno dei più autentici insegnamenti che i miei genitori ci hanno trasmesso. Vorrei qui, in qualche modo, almeno tentare di “far luce e ombra” sulla persona di mio padre, anche per quel tempo che gli è mancato. Come a molti artisti, illuminati profeti delle sottili trame del mondo. Ombra e luce. Perché non si vive di sola luce. Non si vive nella sola luce. Ma si vive anche di e nell’ombra. E colui che non ha ombra non è “in luce”. Bianco e nero dell’incisione, notte e giorno ed il loro sottile e tagliente confine. Ora dannazione ora suprema ispirazione, è dall’ombra della cavità uterina che proveniamo ed è nell’ombra degli abissi dell’universo, chissà – “Qui sait ?” si chiede mio padre in una delle più inquietanti incisioni – che torneremo. Tutto comincia e finisce nell’ombra. Molto si svolge e “metamorfizza” nella e con la luce. Assoluta bellezza della complessa semplicità del ciclo vitale. Metamorfosi. Tutto questo, mio padre, lo aveva capito molto presto, forse già dai primi irrequieti incubi infantili ricordati da mia nonna, sua madre. Dall’ombra del suo ventre e nell’ombra del suo travaglio lo diede alla luce, una luce poi sempre costellata da ombre; ma proprio per questa consapevole dialettica di buio e luce della vita, mio padre ne amò ancor di più la sua danza cosmica: ne disegnò, incise e dipinse i colori, le forme, i suoni e le armonie che il mondo regalava agli esseri viventi. “Era un ipersensibile”, raccontava nonna: gli incubi del bambino che fu, forse prefiguravano le sue ombre e i suoi neri. Ma presto trovarono i loro bianchi e dagli incubi capì che poteva esserci una “chiave dei sogni”. Bisognava solo riconoscerla. Prenderla dalle memorie dei “Temples de la nuit” e saperla usare.

Ombra e luce. Bianco e nero, giorno e notte. Non bisogna avere paura dell’ombra, del buio e della notte. Non bisogna avere paura del “difficile”. Ci vuole metodo e volontà, pazienza e coraggio. Questo ci ha insegnato nostro padre. Questo insegnava ai suoi allievi, perché è dal difficile che spesso provengono le bellezze più elevate. E non solo per il fatto che si viene premiati con la semplice riuscita del superamento della difficoltà. Il difficile, il buio, la notte, possono essere la chiave di un sogno. Anche dopo gli incubi. Pensiamo ad un oscuro guizzo barocco di Borromini o alla sofferta espressione di pathos di una statua ellenistica; ancora, alle difficili ma oniriche e ipnotizzanti righe di Joyce o agli infiniti ed irraggiungibili flussi mnemonici di Proust. Scritture non facili, scritture mirabili.

Quanto era, ed è ancora difficile il bulino? E quanto il disegno, la composizione “dal vero”, reale o mentale che sia? Ritrarre il corpo umano, un albero o un fiore è complicato, tanto quanto il mondo onirico che ci pervade.


Mio padre considerava tutto ciò “la chiave dei sogni”. La chiave del mondo, delle sue infinite porte, per ognuna delle quali una chiave potrà sempre esistere, far considerare le ombre e i neri quanto le luci ed i bianchi, far leggere e vivere le difficoltà, nel gran teatro del mondo e della vita, come preziosi punti di partenza: slanci verso mete altrimenti irraggiungibili, nella facilità morbida e rassicurante del veloce ed immediato.

Anche Walter Benjamin, nel suo Dramma Barocco tedesco, saggio di alto valore epistemologico, scrive che la via ed il metodo per il vero è indiretta e difficile. Il bulino, e l’incisione in generale, rappresentano una di queste strade indirette e difficili: la lastra, concepita a rovescio, rivela l’immagine, e il suo corretto senso di lettura solo alla fine, dopo il processo di stampa. È la chiave del vero, o meglio di una delle tante verità che ci riservano il mondo e la vita. È la chiave della bellezza e del suo ricordo, anche quando questa, la bellezza, inesorabilmente svanisce e muore. Egli scoprì forse negli incubi infantili che la bellezza, e la vita, finiscono? Scoprì, forse, che tutto ciò erano l'ombra e la notte che lo avrebbero ripreso e riportato da dove veniva? Scoprì che la vita era anche difficile.
Diceva spesso papà: “c’était si simple la vie”; ad un certo punto, invece, capì che non era più così semplice. Che era difficile: in forme e in tempi diversi per ciascuno, ma difficile. Scoprì al tempo stesso che esiste una chiave per aprire la porta che preserva e protrae la memoria della vita, del mondo e della sua bellezza: l’arte. Essa conserva l’amore e la passione gioiosa, le incide e scolpisce con rigore e disciplina, impegno e leggerezza, razionalità e follia. è la dialettica di Ethos e Pathos, chiave di lettura dell’arte greca secondo Nietzsche, sulla cui trama l’artista, funambolo in altalena, svela e rivela la sua melanconia ed insieme la sua forza, il coraggio da acrobata nel trovare il difficile equilibrio della danza cosmica, fatta di cadute e ricadute, Chute e Rechute: non a caso titoli di importanti lavori a bulino di Velly.

Non è questo un inno alla difficoltà, una sua sterile apologia: tesso le trame della poetica e della persona di mio padre, per comprendere meglio oggi ciò che fu la sua ode al Tutto, più evidente nell’ombra, nell’invisibile, nella difficoltà. Innalzata nella morbida e vellutata oscurità della manière noire, o nei profondi ed incisivi neri del bulino.

Quando incideva, soprattutto quando usava il bulino, papà grondava di sudore e di pensieri. Spesso ci faceva andare in vacanza in anticipo, mentre lui si tratteneva in una Formello estiva e deserta, a rimpiangere, nell’afa torrida, il vento delle coste bretoni ed i suoi vivaci porti. Lavorava, ha sempre lavorato duro, ricordavano spesse volte mia madre e mia nonna. Non era l’artista bohémien nel senso fumiste del termine. Raccontava mia madre che fin dagli esordi, dalla borsa di studio ottenuta col Grand Prix de Rome, papà aveva continuato con la severa costanza imposta dall’incisione; un esercizio non solo tecnico, ma anche spirituale, e insieme fisico e materico.

Sullo sfondo la Roma della dolce vita, un allettante canto di sirene cui papà non tese l’orecchio, anche se mamma mi ha sempre parlato di un uomo gioviale, scherzoso ed amante della vita.

Vero, solidale e diretto con i compagni artisti e borsisti, con gli amici in generale. Ma anche silenzioso, spesso sudato, chino sulla sua opera, quando si trattava di portare avanti la passione e conciliarla con la “difficoltà”, rappresentata da un lastra di rame o dal primo imperdonabile segno del bulino. Si lavorava, si risparmiava e si stringeva la cintura. Niente follie consumistiche o astronavi a quattro ruote. Sempre sane vacanze, un piccolo ristorante durante il viaggio verso la Catalogna o la Bretagna. Una trattoria nella rigogliosa campagna romana. Tutte le estati una casetta al mare in affitto per mia madre, mio fratello e me. Mai nulla ci è mancato e, bisogna dirlo, per la sua famiglia, per noi figli, auspicava una vita “dolce”, pur preparandoci ed allenandoci alla durezza ed amarezza che ogni esistenza, anche la più edulcorata in apparenza, può riservare.

No, non era un fumiste. E non era solo colui che vive di notte e che può gestirsi gli orari perché non deve timbrare il cartellino ad un determinato orario. Quanto si animava, verso chi, facilmente, lo includeva fra quelli “che il giorno dopo non dovevano andare al posto di lavoro schiavi di un determinato orario”! Costoro a volte dimenticano, o semplicemente non sanno, che se un artista non è schiavo degli orari, è però spesso schiavo di se stesso e dei suoi tormenti, di quel sublime dilemma della “messa in forma”. Gli zii catalani che lo adoravano e che lui, nelle vacanze in Spagna, teneva in piedi fino all’alba, fra chiacchiere cosmiche ed interminabili partite a scacchi, ricordano come Jean-Pierre sgretolasse con impeto il luogo comune dell’artista, e del suo lavoro, “sempre” libero dagli orari e dalle imposizioni. Il lusso della libertà che aveva scelto lo pagò caro: ma fu la libertà che lo innalzò, lo unì alla poesia del Cosmo, con le immagini che gravitavano nella sua mente, impeccabili e vorticose, cui dava forma col disegno e nella pittura. Queste azioni delle mani e della testa, erano i suoi “cartellini da timbrare”, in cui, da artista, egli ci restituiva la sottile trama sottesa al mondo, la sua verità invisibile, resa manifesta nell’oscurità dell’ombra. L’ombra del suo dilemma cosmico e di uomo trovano luce nel suo segno inciso, disegnato o dipinto. Ma prima di poter dire “Un point, c’est tout” la strada è lunga e difficile; e lo è nonostante la libertà dagli orari.

Mio padre ha voluto ed è riuscito a fare dell’arte il suo lavoro, duro e faticoso, costellato di difficoltà e ostacoli come tutti i lavori. Una scelta, una disciplina, seguita con metodo e rigore, con passione e sentimento. E con le cadute dal filo, consuete per gli acrobati. Perché tale è anche l’artista: un funambolo sospeso su quel sottile e precario filo che separa realtà ed immaginazione.

Realtà del momento contingente che viviamo ed immaginazione come “altro” del mondo, essenza che, rielaborata dalla fantasia, trova la poesia dell’universo e innalza il suo canto.

Mio padre, in un connubio arte-vita non sempre facile e scontato, non trovò forse il senso ma un senso, non la via bensì una via, nel frammentario tessuto dell’esistenza: attraversato dalle infinite trame grafiche, nella fluttuante sospensione di teste o corpi in metamorfosi o in fuga, nella prorompente esplosione di cose ed oggetti. Horror vacui, pare si dica. Direi, piuttosto, Amor mundi: volti ed oggetti fissati e impressi nei labirinti della memoria, per amore del mondo sottratti all’abisso dello spazio e del tempo. Così fu l’artista. E l’uomo? Non erano molto lontani, i due personaggi, ma distinti. Al lavoro nello studio papà era severo e metodico: lavorava senza parlare, pretendeva il silenzio se necessario alla sua creazione, ma sapeva anche alleggerirlo con racconti e risate, con una passeggiata in paese o in campagna. Fuori o dentro lo studio, dagli amici, a casa, molto spesso insieme con mio fratello, divenuto il suo più grande amico dopo le naturali e costitutive difficoltà dell’adolescenza, parlava della vita quotidiana, di astrofisica e filosofia, dei personaggi del paese, goliardici e pittoreschi.

Non “canzonava”, non prendeva in giro mai la gente ma i suoi pregiudizi: il gatto nero, il pipistrello vampiro, lo stesso cliché dell’artista maledetto, avvolto dalla sciarpona nera, che fa risuonare gli zoccoli bretoni sui sampietrini del paese: si divertiva moltissimo a “travestirsi” da se stesso, e a spiare le reazioni dei paesani al suo passaggio.

Infine, ma non meno importante: uomo e artista Jean-Pierre Velly fu per e grazie a due grandi donne, due madri.




La sua che, oltre a generarlo, capì, nutrì, permise e protesse il suo sogno di uomo libero contro chi, in famiglia, vedeva nell’arte un mestiere precario ed impossibile. E mia madre, Rosa Estadella: alla luce e all’ombra della donna e dell’artista che ella è stata, va considerato anche mio padre. Perché, senza velo alcuno di un femminismo banale e inadeguato, posso dire che la loro coppia costituisce per me, che l’ho vissuta da vicino, l’esempio di come un uomo e una donna, due grandi individualità, possano sostenersi a vicenda e diventare migliori insieme.

Amante e musa ispiratrice, ma non solo. Moglie, amica e madre dei suoi figli, ai quali insieme avevano voluto regalare la vita ed il mondo. All’arte anche Rosa dedicò totalmente il suo spirito, e lo fece con generosità e morbidezza, quella di una donna che annulla se stessa per adempiere al compito immenso che la creazione le impone. Al tempo stesso, ella volle fortemente essere madre, e visse questa condizione naturale, viscerale, nel migliore dei modi. Nell’intreccio di creazione umana e artistica, nello spirito interamente ad esse consacrato, ritrovo l’incontro ed il matrimonio “mistico” fra i miei genitori. Fu un dialogo e uno scambio. Si consigliarono, aiutarono, si offrirono l’uno all’altro. Inevitabilmente si scontrarono, perché l’amore e la passione, per l’arte e per la vita, portano a fondersi nel corpo e nello spirito, ma anche a respingersi per ritornare individui distinti.


La vita, poi, come diceva papà, non era più così semplice come sembrava. Si amarono di un amore difficile e intenso; anche quando capirono che non era più il tempo, almeno per il momento, di vivere questo amore sotto lo stesso tetto, si stimarono, guardando alla ricchezza e al valore del lavoro dell’altro. Vorrei che da queste righe, la figura di mia madre emerga, incisiva ed importante, quale è stata per Velly e per la sua arte, e al tempo stesso discreta e silenziosa, presente e generosa, come sanno essere le donne di valore accanto agli uomini forti che le hanno scelte. Capace, anche nell’ombra, di dirigere su di lui e su noi figli un raggio di luce riflessa, proiettata dalle pennellate di trasparenze acquatiche e di olii setosi, che partoriva, anche lei sudando, nel suo studio.


Fino all’ultimo dei giorni della sua battaglia per la vita, mia madre ha creato e dipinto, e in parallelo ha proseguito con Vinicio, caro e devoto allievo di papà, a trasmettere la grandezza e l’importanza dell’arte grafica del suo Jean-Pierre, promuovendo mostre, e incrementando la diffusione dell’opera. Per Formello sognava e sperava in una scuola di tradizione incisoria: la vittoria della memoria sul tempo.



Ma anche con Rosa Estadella, mia madre, come con Jean-Pierre Velly, il tempo non fu clemente. Chronos, tiranno eterno, ingannatore inesorabile, si sentì sfidato da due poeti del mondo, che andando oltre se stessi, lo superavano grazie all’arte: per questo chiese in anticipo il conto del sublime e del segreto assoluto delle cose strappato alla sua falce. Gli artisti, giunti alla fine del cammino terreno, non possono più creare e dar luce alle imagines: essi tuttavia, attraverso l’opera, continuano a parlare un linguaggio sempre nuovo, che si misura con le epoche. Carichi di significato e “significanza”. Carichi di amore e di sogni. Perché è questo, anche, che insegna l’arte: ad amare e sognare; a credere, a trovare una chiave, a saperla usare, nella presenza e nell’assenza.


Diceva papà che non si può pensare di dipingere o disegnare se prima non si conosce l’anatomia umana dal vero. Il gioco intenso di luce e ombra sul rotolo di carta igienica, persino, è l’esercizio fondamentale che da maestro imponeva ai suoi allievi: svelando e rivelando un mistico segreto. Spesso mi raccontava che anche il semplice operaio, ancora alle prime armi, deve seguire un metodo rigoroso e “applicato”, per poter fare ogni mattina il suo cemento: antica tecnica e fondamento di ogni costruire.

Anche l’amore e i sogni possono costruirsi, e darsi a noi attraverso le chiavi che pazienza, fantasia, tecnica, metodo, disciplina sanno forgiare. Sublimate da passione ed emozione. Passione ed emozione, la chiave dei sogni: i sogni, le chiavi del mondo.

 

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