Velly     Franco Simongini (1984)
 

Franco Simongini  Velly: il simbolismo della bellezza vegetale

in «Il Tempo», Roma, 1 aprile 1984.


“Di fronte alle prime mostre di acquarelli di qualche anno fa, queste nuove opere di Velly sfuggono sempre più alla qualificazione di genere, di natura morta, e secondo noi si distinguono, si maturano, colpiscono, proprio per la diversa qualità della loro risonanza umana, la diversa poesia, più sommessa, la dilatazione della luce che non è luce naturalistica dell’alba o del tramonto (o del mezzodì metafisico), ma una sorta di luce mentale che trasforma quei filamenti vegetali, quelle corolle floreali, in emblemi, inalberati stendardi della nostra coscienza libera contro il cielo, simboli di una vita ricca, malinconica, beata della propria disfatta e della propria perdizione, nel suo fiorire accanito e lussureggiante; emblemi di una vita interiore che (malgrado tutti i cupi abbrutimenti abbuiati e apocalittici) cerca di sopravvivere nell’incanto della sua solitaria, perfetta e inutile bellezza.

Inutile come tutta la vera arte, utile solo al nostro conforto, alla nostra intima gioia”.




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Franco Simongini, Velly: Quel miracolo vegetale nell’infinito,

in «Il Tempo», Roma, 21 aprile 1986.


“Sono paesaggi, tramonti e montagne con fiori in primo piano, tutti pervasi di grande spiritualità (uno dei pittori più amati da Velly è il grande dell’800 tedesco Friedrich). Friedrich s’inginocchia di fronte all’infinita bellezza della natura - mi dice Velly, io m’inginocchio di fronte alla giornata dell’uomo che muore». Cos’altro è, se non una preghiera alla bellezza effimera del creato, quella descrizione così minuziosa, ossessiva, che Velly fa dei fiori in primo piano sullo sfondo di un paesaggio al tramonto intensamente dipinto? Velly se inserisce gli oggetti, il descrive sotto forma di eternità fuori del tempo: l’archetipo del vaso, del bicchiere. «È un misticismo, il mio - ripete Velly - un raffigurare la mia concezione della vita e dell’universo». La luce che investe i paesaggi di Velly è una luce tutta interiore, che cerca di ricreare le cose e la natura in una visione struggente dell’effimero umano: e che cosa più dei fiori danno l’idea della vanitas? Ecco il punto: per Velly questi fiori e questi paesaggi messi a contrasto, significano proprio la bellezza effimera, che annega e muore nel gran tramonto della natura, senza dramma, senza tormento, così, in silenzio, realisticamente (infatti Velly afferma di non avere una visione pessimistica del mondo ma realista)”.




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IL TEMPO

N° 116; 7 maggio 1988


VELLY ALCHEMISTA


In occasione di quella interessante mostra «Tre stranieri a Roma» (William Bailey, Dieter Kopp, Ivan Theimer) curata da Giuliano Briganti alla Calcografia Nazionale, in molti domandarono come mai mancava un disegnatore e incisore come J.P. Velly, che, al contrario dei soprannominati, vive stabilmente in Italia, a Formello dal 1970… E la presenza di Velly, poi, in quella mostra, avrebbe portato nella magica fissità metafisica di Bailey, nella sensualità snervata di Koop nella mitica ricostruzione architettonica di Theimer quel drammatico avventurarsi nella notte, nella solitudine di rari bagliori che aprono un infinito. E chi conosce le prime incisioni di Velly conosce bene quella incisione alla Dürer, lastre constellate di figure e oggetti come in una girandola infernale.


Jean-Pierre Velly: magro, di media statura, con i capelli arruffati e arricciolati, lunghi, color sale e pepe, e straordinari mobilissimi occhi neri, acuti, proprio di chi è capace di cogliere anche l’invisibile. Ecco come può apparire al primo approccio quest’artista francese nato in Bretagna, ad Audierne nel 1943, che aveva vinto il Prix de Rome per l’incisione nel 1966, avendo così l’opportunità di lavorare negli splendidi atelier dell’Accademia di Francia, a Villa Medici. E l’atelier  Velly l’ha messo su pezzo per pezzo nella quiete di Formello, nel vecchio centro abitato, è tanto angusto suggestivo, un vero e proprio laboratorio di alchimia: dal soffitto pendono appese a fili, ossa terrose di animali, fossili anche, quasi un cimitero in cielo. E fiori appassiti, schiacciati e rinsecchiti giacciono esausti ovunque.


E’ qui che Velly, ultimo romantico, disegna, dipinge e incide.


E per capire il Velly disegnatore e pittore bisogna partire proprio dalle sue alchimistiche qualità di incisore che scava l’ombra e la luce. In questi ultimi anni Velly si è dedicato a delle notturne nature morte, o meglio, mazzi di fiori sul davanzale di una finestra che guarda l’infinito del mondo, il sublime della notte che avanza, nei bagliori che si smorzano, nella fatale quiete serale foscoliana.


La mostra ora aperta alla Galleria Don Chisciotte, in via Brunetti (che festeggia i venticinque anni della sua attività, con un catalogo a cura di Vittorio Sgarbi) con disegni, olii e acquarelli, esalta appunto la tensione dell’artista francese verso una “luce delle tenebre”, fatta di accensioni talora corrusche, apocalittiche in cui affiora il ricordo-omaggio di Rembrandt ma anche (soprattutto nel quadro del 1987 “La disperazione del pittore») qualche reminescenza turneriana, il Turner di Ombre e Tenebre la Sera del Diluvio, alla Tate Gallery di Londra.


Ma da tutte le opere di Velly esposte in questa occasione traspira, flebilmente modulata, una profonda religiosità della natura e dell’arte, dai toni drammatici, visionari, quasi decadenti. E questa religiosità richiama alla memoria un grande pittore romantico dell’ottocento, il tedesco Friedrich: nella Natura Morta del 1987 di Velly. la scansione orizzontale del mare-cielo rimanda, in modi assolutamente trasfigurati e personali, al “Monaco sulla spiaggia» di Friedrich, a Berlino, sebbene in Velly i toni drammatici prendono il sopravvento. Minuziosi, potentemente costruiti sono poi gli studi d’albero, ad inchiostro alla Dürer; e poi ancora inquietanti, profondi autoritratti, invecchiati, colti sulla soglia della dissoluzione, del confine esile tra essere e non essere. Autoritratti che sembrano guardare da un altro mondo, dall’alto in basso, da altri universi, severi, che non sembrano offrire alcuna concessione, anzi Velly ha voluto presentarsi ancora più scabro e tetro.


Novità di questa mostra alcuni nudi e ritratti di donna, anch’essi cesellati e caratterizzati in una sorta di «allegria di naufragi», nel segno del magistero di un Ingres, dove la bellezza sembra offrirsi alla stessa luce vespertina dei personaggi della campagna romana. E il lettore, nel leggere i riferimenti che abbiamo fatto per questo artista, avrà notato come Velly si sia sempre mosso sulla scia del magistero e ispirazione del grandi incisori e disegnatori, concedendo poco o nulla a tutti gli sperimentalismi dell’arte moderna. Addirittura Velly sembra averla ignorata, pur offrendo una disperata e ascetica immagine di artista visionario del nostro tempo.



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Franco Simongini, Velly: l’incisore tra sogno e incubo, in «Il Tempo»,

Roma, 29 maggio 1990.


“È stata quasi una beffa del destino nei confronti di Jean-Pierre Velly, farlo scomparire nelle acque più cupe e profonde, certamente non infuriate, del piccolo lago di Bracciano, durante una gita in barca con il figlio, lui che non sapeva nuotare e amava le distese a perdita d’occhio di paesaggi con montagne e vegetazioni, l’intrigato dipanarsi dei rami e dei fiori disposti sempre sull’orlo di un davanzale affacciato sull’abisso infinito della natura. Perché tutta l’opera di questo artista romantico, ribelle, solitario, (di pochissime parole, magro e scuro con una capigliatura arruffata), sia incisa al bulino o all’acquaforte, sia dipinta all’acquerello, a tempera o ad olio, è stata in continuo riferimento alla bellezza della natura, alla assoluta purezza mistica di un fiore, di un panorama al tramonto magari dipinto (magistralmente) con la tecnica dei grandi maestri del ‘500 e ‘600.


Se mai si farà la storia vera dell’incisione in Europa, di quella tecnica difficile che solo pochissimi artisti sanno ancora realizzare con ogni tipo di bulino, lastre e acidi, Jean-Pierre Velly dovrà essere considerato uno dei suoi più straordinari artefici-inventori. Precisione, fantasia, capacità di stravolgere la realtà e le figure umane e reinventarle in un contesto cosmico e metafisico, come parimenti sapeva calarsi nel fantasmagorico e allusivo mondo degli insetti, studiati e ritratti con una precisione da entomologo, da scienziato, fatalmente attratto dalle suggestioni di un certo naturalismo nordico e gotico”.


Erano ormai vent’anni che Velly viveva e lavorava nella quiete di Formello, a pochi chilometri da Roma: nel centro storico Velly aveva il suo studio, un vero e proprio laboratorio alchimista (dal soffitto pendevano, appese a fili, ossa terrose di animali, fossili anche, e fiori appassiti, schiacciati e rinsecchiti giacevano esausti ovunque). Nato in Bretagna nel 1943, vicino la Punta del Raz, Velly aveva studiato a Tolone e a Parigi; nel 1966 vinceva il prestigioso Gran Premio di Roma con una delle sue più belle incisioni “La chiave dei sogni” ottenendo la borsa di studio di tre anni e quattro mesi di soggiorno all’Accademia di Francia a Roma, a Villa Medici. Nel ‘70 Velly decide di rimanere in Italia e si trasferisce a Formello, per certe suggestioni classiche. Infatti i suoi Maestri ideali, mi confessava l’artista, erano: stati: “Dürer, Rembrandt, Odilon Redon, Blake e Boeckin, un certo clima della secessione viennese e tra i contemporanei il De Chirico metafisico forse l’artista di oggi a me più vicino mentre mi sono completamente estranei Picasso, Matisse, la Scuola di Parigi insomma...”


Un artista visionario Velly che lavorava per capire se stesso e non (come fanno molti suoi coetanei) per accumulare rapidamente soldi e fama. “Ho cominciato a incidere a quattordici anni, frequentando la scuola di belle arti e mi sono accorto subito che l’incisione era il mezzo a me più congeniale per esprimermi quella era la mia strada” mi aveva confidato qualche anno fa Velly. «Ma lo choc più forte io ho avuto quando la prima volta alla Biblioteca Nazionale di Parigi ho potuto vedere e toccare le lastre originali lavorate dal grande inarrivabile sublime Dürer: e fu la rivelazione della mia vita, e da allora l’incisione è diventata l’incubo e il sogno della mia vita, perché la visione in bianco e nero è un fatto del tutto montato, non esiste nella natura, nel bianco e nero si scatena tutta la mia ansia e sete di libertà espressiva, lontana dalle mode, dalla contemporaneità a tutti i costi.”


L’ultima, bella mostra di Velly tenuta alla Galleria Don Chisciotte dall’amico Giuliano De Marsanich esaltava appunto la tensione dell’artista francese verso una «luce delle tenebre», fatta di accensioni talora corrusche, apocalittiche, in cui affiora il ricordo omaggio di Rembrandt ma anche qualche reminescenza turneriana, il Turner di Ombre e Tenebre e La Sera del Diluvio alla Tate Gallery di Londra. Da quelle ultime opere traspariva, flebilmente modulata, una profonda religiosità della natura e dell’arte, dai toni drammatici, visionari, quasi decadenti, una religiosità che richiamava alla memoria un altro grande pittore dell’ottocento romantico, il tedesco Friedrich.


In una delle sue poesie Velly aveva scritto: «Nella mia fine il mio principio. /Aliando sulla fragile caduta / un altro dio / manipola di lacrime / i cristalli dell’ultimo sogno. / E canta canta l’elegia contigua che la paura d’uomo ha spento / Unico torno in me / di me ragione / io così sia / immortale».


Franco Simongini

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