Velly   Radio Ipsa (versione italiana)
 

RADIO IPSA  1980


trascrizione fedele delle parole dell’artista registrate durante un’intervista radiofonica del 1980.


Si ringraziano il sigg. Kersten per la gentile concessione del nastro.

 

CarloSiamo alla Galleria Don Chisciotte… Abbiamo con noi Jean-Pierre Velly e chiediamo qualche informazione a lui direttamente perché voremmo che i nostri ascoltatori potessero conoscerlo abbastanza bene. La prima domanda ... la partenza. Come ha iniziato la sua attività ?


J.P.V.La  mia attività è cominciata, diciamo… nascendo, perché ho sempre preso un foglio di carta, una matita e ho sempre disegnato…Prima dei fiori, le bambole, tutto… Poi dopo, è chiaro che la cosa è diventata plus complicata, insomma, no?


E piano, piano, ho fatto gli studi a Tolone, prima. Avevo quindici anni più o meno allora, poi è andato avanti così… Parigi, tutto, tutte le scuole che ho fatto.


È chiaro che, all’inizio, uno comincia a fare i fiorellini come dicevo, poi dopo (ride), diventa un tentativo di dialogo, cioè che uno utilizza il segno grafico o il colore come un vocabolario. Io purtroppo parlo molto male italiano, ma sempre questo tentativo di linguaggio, di dialogo, cioè di una cosa che non si può esprimere con le parole, che allora uno lo cerca col segno, col colore. E questo è molto difficile, purtroppo. E anche la bellezza, insomma, è difficile!


Carlo Penso che è stato difficile come lo è stato per tutti.


J.P.V.Sì!


CarloUn’ altra domanda, pochino più specifica…C’è qualche personaggio, qualche pittore, qualche maestro, che, in particolare, ha influenzato, in questi anni pero di preparazione, questi anni di studio ?


J.P.V.Direi tutti, ma tutti senza escludere nessuno! Appunto perché in questo tentativo di dialogo; escludiamo subito quelli che non sono veri, o non autentici. È chiaro che essendo francese, ho subito l’influenza, per rispondere alla vostra richiesta, l’influenza di Cézanne, attraverso Poussin … e Ingres, (poi pronuncia “Ingress” all’italiana, e ride), che sono della stessa, per me, linea, insomma, no! Poi dopo, uno si trova più o meno perso tra…questo quando ero giovane…poi uno si trova perso, cioè avanti questa avventura che è, tra l’altro la vita! E uno si trova solo e deve combattere con se stesso … e dibattersi, direi, con se stesso. Poi dopo sono stato molto attratto da, per esempio, i John Martin, Friedrich, insomma, una cosa un po’ più simbolica.


Carlo E Albrecht Dürer ?


J.P.V.Sì , chiaro! Fa parte dei miei amori eterni, anche di gioventù, ma eterni, comunque, insomma. Dürer o Rembrandt! Perché…non ho mai capito perché uno diceva Dürer è più bravo perché utilizza il bulino o Rembrandt perché utilizza l’acquaforte. Sono due possibilità di dialogo offerte, secondo me, con una scelta che si diventa drastica…Voglio dire, impossibile per me dire: “amare Dürer senza amare Rembrandt”. Vorrei dire che…ho gli occhiali… no…cioè… come si dice ?…i paraocchi…


CarloD’altronde, Lei parlava di una… apprendere questa grammatica, avere alla portata di mano tutte le possibilità espressive, e per fare questo, appunto, non si può scegliere Dürer - lasciamo da parte Rembrandt; insomma fare queste scelte, tra le sfumature, ad esempio, e il grafismo di Rembrandt e altri …


J.P.V.   Sì, perché dopo un certo momento, uno che ha capito Dürer, capisce Rembrandt. E vice versa. Cioè, non sono cammini isolati. E questo allora, andiamo ancora più avanti nella conoscenza, insomma. Se si può, se posso esprimere così. Normalmente, non c’è niente da buttare fuori, cioè…quando ero giovane, c’erano quelli che dicevano “E no! Dürer è più forte di Rembrandt!” o “Rembrandt è più forte di Dürer! ” C’erano due “clans” più o meno, no? Il che, per me, ho sempre trovato assurdo una querela di questo genere. Perché Dürer era Dürer…e Rembrandt era Rembrandt! Sono due…cioè la cosa che manca a Rembrandt, c’è l’ha Dürer. E vice versa.


CarloLei ha preferito scegliergli tutti e due…


J.P.V.Sì, purtroppo ho fatto questi due nomi, ma ci sono ben altri ancora, insomma, no? Per parlare dei più grossi incisori, ce n’è uno, per esempio, che fu tra l’altro il maestro di Odilon Redon, che era Bresdin. È stato un incisore che mi ha influenzato molto. Quando dico “influenzato”, vuol dire che l’ho amato molto.


CarloPittore, incisore, Lei cosa preferisce? E con che cosa preferisce esprimersi?


J.P.V.Ma… Non ho problemi di questo genere. Si a Lei va di fare una passeggiata alla Piazza del Popolo, Lei ci va. E poi a Piazza di Spagna, Lei ci va l’indomani, no? Dunque, così posso viaggiare con i mezzi espressivi che posso avere sottomano, sempre di arte plastica. Dico purtroppo perché la parola non è il mio linguaggio forte. Quando mi va di andare a Piazza del Popolo, per esempio, prendo un bulino o una punta d’argento o l’acquerello o l’olio…Cioè, voglio dire, non è che se mi si creano problemi del genere.


CarloE ha mai avuto la possibilità di mettere assieme questo discorso di arte plastica su altri tipi di arte, come potrebbe essere, ad esempio, il teatro, la coreografia, o altre cose. Mai avuto esperienze del genere?


J.P.V.No, no… mai.


CarloPensa che in futuro la cosa possa interessarla o no?


J.P.V.Non lo so.


CarloC’è sempre davanti a quel prato enorme, con tanti fiori che aspettano di essere colti…ne puoi cogliere uno, ne puoi cogliere l’altro…


J.P.V.Sì, a secondo della giornata, insomma, no? (ride)


CarloIl suo rapporto con ciò che è aldilà della stanza del pittore…con la gente, con il sociale…


J.P.V.Io direi che per me è una cosa molto importante, perché la stanza del pittore, o del incisore, o del disegnatore…


Carlo…Ha delle grosse finestre…


J.P.V.Se ha delle grosse finestre, ansi! E, è li che si racchiude per poter fare le cose che ha visto al di fuori. Perché siamo tutti… cioè…penso, dovuto al fatto che sono fatto così, e dunque propenso forse a pensare che siamo tutti fatti così, ma, se non siamo in comunicazione con gli altri, siamo vermi, nulla, niente. Dunque quando vedo una persona, cerco con l’occhio mio per le cose, le vie che sono interessanti per me. Ma non solo per me, di un punto di vista egoista, di capire “perché?” Il grosso problema è “che siamo venuto a fare su questa terra? Da dove veniamo? Cosa facciamo? Dove andiamo? ” insomma, no?


CarloQuesto è filosofia…


J.P.V.Di sempre ! Tra l’altro, questo, dicendo una grossa banalità forse, ma … il problema dell’altro deve per forza diventare mio. Questo forse, è una cosa difficile, cioè, da assumere, perché, perché…uno, uno…come si può dire? … può sbattere la testa per venti, trenta, quarant’anni e forse non capirà mai! Non lo so! Non ho ancora capito, io! Dunque… (ride).


CarloAbbiamo qui davanti alcuni quadri del suo Bestiario, così un po’ sparsi, che verranno esposti al Centro culturale francese, se non mi sbaglio.


J.P.V.No! Questi vengono esposti alla “Don Chisciotte”…e al Centro culturale francese, ci sarà una retrospettiva d’incisione in bianco e nero, solo.




CarloEcco qui alla Don Chisciotte allora avremo modo di vedere questo “Bestiario.” Che cosa significa per Lei?


J.P.V.Ma è difficile! Perché si lo saputo…cioè, almeno, ho fatto il tentativo di farlo con il linguaggio plastico è perché non avevo le parole per scriverlo. Lei potrà vedere che l’uomo, che è la bestia principale, brilla dalla sua assenza. E… sempre… Avete visto in un gruppo per esempio, quando ci sono tre, quattro uomini, c’è sempre uno che diventa la testa di turco? Il capo espiatorio, ecco! Tutte queste bestie, che sono bestie notturne, vittime di due mila anni, diciamo così, ma anche molto di più…Il pipistrello, la civetta, queste povere bestie che chiedono solo a vivere nel mondo notturno, che hanno rifiutato l’uomo, eccetera, e che  l’uomo prende e ammazza di un modo impietoso, insomma, no? Allora, diciamo che potrebbe essere quasi una specie di pianto, non sulle bestie, ma sull’uomo che ha fatto questa violenza, giorno dopo giorno, anni dopo anni, prendendosela con personaggi che non c’entravano per niente.


CarloCome ha risolto quei grossi problemi così, al livello suo esistenziale?


J.P.V.Uhm, uhm….


CarloQuei grossi problemi di cui parlavamo prima, cioè il discorso del “Da dove veniamo? Dove andiamo?” Lei è riuscito a risolvere questo modo nella sua attività come pittore?


J.P.V.No, questo non è grave. Io mi considero come un … come si dice?… un insetto, un insetto, come un pipistrello. Cioè, è l’uomo che ha sempre detto che era al centro della creazione. Io non penso che sia così. Io penso che il valore è unico. Potrebbe essere anche un discorso molto pericoloso, secondo come va interpretato. Ma io non è che mi considero più importante di, di…d’una vipera, di una civetta, d’un pipistrello. Eccome il pipistrello e importante come me. Come una pietra, come una pianta…che cosa Vi devo dire di più? Questo è quello che penso. Fino a adesso. Poi dopo, spero che non cambierà (ride)!


CarloEcco, dopo quello che abbiamo detto, Lei come mette d’accordo tutto ciò con la vita di tutti i giorni, la vita quella banale, banale ?


J.P.V.Appunto! Penso che una cosa che distrugge, perché ogni giorno che passa…appunto per questo piccolo bestiario, dicevo forse influenzato da un pensiero di Tristan Corbière, un poeta francese, addirittura bretone pure, della fine dell’Ottocento, “Chaque jour en plus, ogni giorno in più, (io ho scritto questo come dicevo sotto questa influenza), ogni giorni in più, ogni giorno in meno”. Quando uno prende conto di questa realtà, da ridere, è rimasto poco. Lui ha detto una cosa molto più forte in questo senso. Diceva: “Ha ogni uno dei i miei travestimenti (à chacun de mes oripeaux), ho lasciato un pezzo della mia pelle.” E dunque questo è la “rançon (1)” (non so come si dice), il prezzo che uno deve pagare. Adesso non è che voglio entrare dentro il melodrammatico, insomma, no? Perché poi è vero per gli artisti, per gli altri, insomma, no? Questa è una legge universale, diciamo, no? Il prezzo è quello! E come dicevo prima, dopo 25 anni che faccio questo “mestiere” tra virgolette, se si può dire, uno si accorge di essere più povero di prima, magari. E forse questo è la grande ricchezza, di sapere che siamo tutti…non imbecilli… ma senza la conoscenza, senza sapere niente. Più si va avanti, più si va avanti, uno sa che sa meno.



  1. (1)riscatto

 

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