Velly      Marisa Volpi (1993)
 
 

Velly notturno e diurno

di Marisa Volpi



Nei dipinti di Jean-Pierre Velly emoziona la spinta vibrante della luce, una luce che viene dal buio; su un vaso di fiori o su un paesaggio crepuscolare si espande, dal fondo del cielo, un albore; un’immagine nitida al centro del dipinto è minacciata da tramonti o da notti stellate incombenti; vortici chiari se ristringono o dilatano nell’oscurità; luci perlate arrivano quiete a far risplendere un primo piano di foglie, di fiori, di vasi. Sembra scritta per lui questa frase di Shelling: “Se nella notte stessa sorgesse una luce, se un giorno notturno e una notte diurna potessero abbracciarsi, sarebbe infine lo scopo supremo di tutti i desideri.” Nel 1980 la Galleria Don Chisciotte pubblicò un bellissimo Bestiaire perdu, che rileggo e riguardo, ricordando una visita conturbante compiuta forse nel 1986, allo studio di Velly a Formello, dove si respirava un’atmosfera fuori dal tempo, antica e tuttavia così vera. Ambedue le esperienze mi affascinano ancora per la poesia e l’intensità con la quale insetti e piccoli animali, splendidi e ripugnanti, costituivano per lui (per me) un’identificazione dell’umano nella perdita universale. E come lo slancio e la fermezza di Velly affrontavano con l’energia della forma il deperire della materia, la fatalità del dolore, una sorta di alchimia visionaria, infine esaltante.


Si leggono in Bestiaire perdu versi del pittore: «Vous m’avez cloué, - Je n’étais que locataire», Voi mi avete inchiodato, io non ero che un ospite precario». È il rimpianto disperato della libertà nella fragilità del vivere. E poi : «Le clair que tu hais vient du noir qui te manque». Inquietanti chiarità e oscurità nei disegni, acquerelli e collages di Bestiaire perdu si integrano. Tra dipinti splendono scarabei trafitti, scorpioni, coleotteri: uno sembra sognare fiori, un altro nitido nella carta rigata da quaderno si colloca in un alone di cirri, altri insetti, altri animali, incontrando fulcri di luce accecanti come quelli dei pittori antichi tedeschi, o Runge. Qualcuno è morto, qualcuno arranca, qualcuno minaccia.

In Velly viveva un eredità romantica che si impone al di sopra delle mode con la forza del candore e la maestria travolgente della tecnica – incisione, acquerello, olio. Tecniche che non ripetono mai i moduli dei pittori amati : Bresdin, Rembrandt, Dürer, Seghers, ma metabolizzano abilità, fantasie, strumenti con la sicurezza un po’ grandiosa del confrontarsi con i maestri.


Il romanticismo ha trasformato quello che le religioni consideravano un viaggio terreno, compiuto nelle regole di una società bene o male organizzata, in un viaggio individuale, solitario, talvolta sregolato. La quantità dei paesaggi dipinti, o evocati e descritti nelle poesie e nei racconti dell’Ottocento e del Novecento, sono scenari interiori ed esteriori di questo viaggio occasionale, o predestinato. Simile al viaggio, esemplare nella perdita e nel ritrovamento, dei bambini del racconto di Stifter Cristallo di rocca. Tutti siamo attratti e temiamo come loro “grotte paurosamente azzurre”, colline che sembrano schiuma ammassata, albe tinte di giallo mentre in alto scompaiono le stelle, mari che specchiano il moto dell’anima… - ma non siamo davanti ai dipinti di Velly in queste descrizioni? – Gli impressionisti posero invano un alt a questo viaggio, mimetizzando della natura la fisicità sinesestetica ma letterale della materia. Di quella stessa materia approfitteranno infatti isoli ruotanti e le stelle esageratamente prossime di Van Gogh, i boschi simbolisti, i dorati paraventi dei Nabis.


Velly viene dalla Bretagna in Italia a ventitré anni, nel 1966 Premier Grand Prix de Rome per l’incisione. Ma arriva a Roma per affacciarsi da un ideale finestra nordica e sembra ascoltare il consiglio di Friedrich “Chiudi l’occhio fisico, per vedere dapprima il tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi fai emergere alla luce quanto hai visto nella tua notte.” E così appaiono i fiori, gli steli vitali come nervi e arterie, le densità boscose, le vicende delle ore, i chiari di luna, le battige sul cui verde cupo smeraldo biancheggia in primo piano, la nebbiolina bianca di rami fioriti.


Velly dipinge, e soprattutto disegna continuamente, e incide tronchi e radici labirintici, protuberanti e intrecciati come mandragole, vegetali irregolari, scheletri umani o animali, nudi di donna. Il disegno offre la magia di un gorgo messo a giorno. E sottende la pittura. Tra i paesaggi dipinti negli ultimi due anni di vita cominciano ad emergere il tufo romano, i soli divisionisti dei laghi laziali, il verde rubensiano di Sutri. Un sud ancora una volta visto da un nordico, come la lunga teoria dei viaggiatori del Grand Tour.


Tra i non molti ritratti dipinti o disegnati prevalgono gli autoritratti e rivelano un’idea di sé mitomane, appassionata, distante nel tempo e nello spazio, una vecchiaia preannunciata. Anche se lo ricordo parlare e gestire animatamente, mi appare ora asciutto e silenzioso come l’autoritratto a matita del 1989, o quelli solenni del 87.


Jean-Pierre ha scritto un racconto inedito. Quando il bambino guarda la montagna; il protagonista muore a novanta anni. Forse aveva un’alta idea della vecchiaia, ma il pittore è morto in un incidente di navigazione a Trevignano, a soli quarantasette anni. Singolarmente bella è nel racconto l’idea del tempo: un attimo dall’infanzia a novant’anni, e vi campeggia un solo episodio. Il bambino vince, stupefatto di sé, un gran numero di bilie, colpendo sempre il bersaglio. Poi, giocando con frammenti di pietra combacianti, ricostruisce pazientemente un’intera montagna bianca e muore stringendo vecchissimo una bilia con la mano scarna. Forse Velly, anche lui, ha colpito sempre il bersaglio ed è morto stringendo in mano la sua bilia bianca, la perfetta piccola sfera, il centro vuoto della montagna, di cui solo lui conosce il segreto.


E valutiamo l’intensità della vita dell’artista di Jean-Pierre quel suo volto grave di pensiero; l’orgoglio del possesso dell’antica pressa per lavorare l’incisione, macchina arcaica come tutto nello studio di Formello, quella tradizione europea che ricava in sé, in un vissuto il doppio degli anni reali della sua vita. Ha portato via con sé una conoscenza pittorica assolutamente originale, la vediamo in Vaso di fiori del ‘90: lampi di buio, mobile disegno di colori accesi e spenti. Questi teatri cangianti dell’Invisibile che sono i dipinti di Velly calamitano all’infinito poesia, dal regno crepuscolare e profondo di cui Albert Beguin ci ha dato una chiave in l’âme romantique et le rêve, indagando il “meraviglioso confidarsi dell’inconscio con il cosciente che noi chiamiamo sentimento”.



 

Salendo sempre, lasciando giù, sotto

miei talloni l’abisso, in fondo, pieno

d’ombre, volai nella bruma del vento

che piange, verso l’abisso in alto, oscuro

come una tomba…O tenebre, sappiatelo,

la notte non esiste.


(Jean-Paul)

previous                          next

leggere un altro testo di Marisa Volpi su Jean-Pierre Velly