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L’enigma della biglia e della montagna


Gabriele Simongini


Un messaggio cifrato in un racconto, inciso fra le righe, in controluce. Il mistero della biglia e della montagna, della natura e della circolarità del tempo così fugace per gli esseri umani. Il senso del sublime, l’ansia di perfezione, la fragilità della vita, il finito e l’infinito, la ricerca di se stessi spingendosi ai limiti estremi delle proprie possibilità in un’unica grande impresa, epicamente solitaria. Sì, nel manoscritto di Jean-Pierre Velly intitolato Quando il bambino guarda la montagna (1988), pubblicato per la prima volta nel catalogo della mostra postuma tenutasi nel 1991 alla Galleria Don Chisciotte di Roma, troviamo una sorta di simbolico testamento spirituale che in qualche modo è complementare, per verba, all’evidenza concreta delle opere. Sembra venuto a galla come un messaggio in bottiglia, questo racconto edito solo dopo la scomparsa dell’artista e quasi affiorato dalle profondità dell’abisso lacustre che ha inghiottito Velly, tornato a riunirsi con quella natura a cui lui stesso, con le proprie opere, aveva innalzato una preghiera inesausta e colma al contempo di speranza e disperazione. In quel racconto di formazione ci sono due bambini, anche se forse è sempre lo stesso che vive due vite. Il primo cerca la biglia più perfetta che si sia mai vista, anche perché nei suoi sogni le stelle si mutano in sfere da gioco e si innesca “Un gioco di Comete, Astri e Stelle che rotolano, si incrociano, si scontrano… in un’esplosione di luce e rumore”. Come non pensare alle notti stellate di tante opere di Velly (fig. 1, Fleurs d’hiver) in cui una bellezza struggente si unisce inestricabilmente alle catastrofi che popolano la vita dell’universo? – del resto, aveva ragione Pessoa nel dire: “Tutto ciò che esiste, esiste forse perché un’altra cosa esiste. Nulla è, tutto coesiste” – (Pessoa 1982). Fatto sta che il bambino a quindici anni decide di lasciare la famiglia per cercare la “sua” montagna trovandola finalmente in una dalla “eburnea superficie”. La avvolge e cattura pazientemente in “una ragnatela di legno”, creando una gigantesca impalcatura che gli permette di scolpirla, di disfarla e trasformarla in una sfera esemplare, anzi in una biglia perfetta. Nel frattempo sono passati settantacinque anni, interamente impegnati in questo lavoro ossessivo e finalmente l’ex bambino può distendersi soddisfatto sul giaciglio della propria piccola capanna, serrando la biglia perfetta in mano. La sua impresa e la sua vita sono compiute nell’inseguimento della perfezione e il tempo è fuggito via in un batter d’occhio. Quell’ansia ossessiva della perfezione (non a caso Paul Valéry ammoniva: “la perfezione sta nel dettaglio”) (Valéry 1934) era anche uno dei demoni di Velly e si realizzava in una concezione atomistica dell’atto creativo che si ricomponeva vibrando nell’infinito. Per l’artista bretone tutto era nella forma, forse anche Dio, perché essa salva e ferma il deperimento dell’esistente. Tutto – dicibile ed indicibile, visibile ed invisibile, finito ed infinito – deve farsi forma, segno, colore. Questa è la condanna e la salvezza di chi, come Velly, viveva veramente solo quando incideva e dipingeva, come avveniva al bambino quando scavava la montagna per ridurla alla biglia perfetta. Ma torniamo al racconto. Passato molto tempo, un altro bambino, durante una passeggiata in montagna col padre, trova per terra “una sfera perfetta delle dimensioni di una biglia”.


Incantato, se la mette in tasca per poi giocarci con i compagni di scuola. E quella biglia si rivela, oltre che perfetta, anche magica ed infallibile perché nelle gare fra ragazzi colpisce sempre le altre biglie, anche da lontanissimo e con lanci completamente sbagliati. Giunto a quindici anni, anche questo bambino-adolescente lascia la famiglia per tornare sul luogo in cui aveva trovato quella sfera magica. Lo raggiunge, ricostruisce la capanna precedente e decide di viverci per “scoprire sul posto il segreto della piccola biglia bianca”. Un giorno, dopo tante contemplazioni e riflessioni, si mette a giocherellare con due bianchi frammenti di pietra e scopre casualmente che unendoli essi combaciano alla perfezione. Capisce quel che deve fare:“pazientemente ricostruì, scheggia dopo scheggia, frammento dopo frammento l’intera montagna, fino a quando non ne ebbe ricostruita la forma originaria”. Finita l’impresa ha novant’anni: “Si distese sul suo giaciglio serrando nella mano irrigidita la piccola sfera perfetta, la biglia della sua infanzia. L’ultima visione che ebbe di questo mondo, fu l’immagine della sua montagna: era l’unico a sapere che al centro di essa, c’era un vuoto perfettamente sferico. Della grandezza di una Biglia”. E così la montagna diventa un po’ anche la metafora della matrice nell’incisione, mentre la Biglia è il miracolo del foglio stampato. Alla fine, il lavoro inesausto e le vite dei due ex bambini hanno ricomposto l’armonia originaria traendo l’opera perfetta, la Biglia, dal cuore della montagna e della natura, senza distruggerle. Per Velly, che più volte si è definito un realista e non un pessimista (“Con i colori mi piace raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò ma che l’umanità continuerà e anche se la vita sparisse un giorno sulla terra…”), tutto prosegue comunque, niente finisce per sempre, come cantava magnificamente Walt Whitman:


“Il minimo germoglio mostra che la morte non esiste,/ E che se mai esiste, essa indusse alla vita, e non attese/ il termine per fermarla,/ E non cessò l’istante che apparve la vita./ Tutto continua e procede, mai nulla s’annulla,/ Morire è ben diverso da quanto alcuno pensava,/ e molto più fausto” (Whitman 1855).


Nelle opere dell’artista bretone, infatti, disfacimento e nascita coincidono e quasi si identificano in un

equilibrio mirabile. Tra l’altro, soltanto nella solitudine i due bambini-artisti approdano all’assoluto della forma e in questa via solitaria, che era quella autenticamente vissuta da Velly nel suo laboratorio “alchemico”, c’era una sorta di misticismo personale che avrebbe fatto ben condividere all’artista bretone questa riflessione di Thomas Merton: “Se vai nella solitudine con un cuore silenzioso, il silenzio della creazione parlerà più forte delle lingue degli uomini e degli stessi angeli”. Nel passaggio ideale di testimone fra i due bambini, in un tempo sospeso (“Se cerchiamo di far astrazione dal tempo – diceva Velly – noi siamo già un po’ più liberi”), c’è anche il senso profondo della tradizione, di quella trasmissione di esperienze nel tempo che innerva il percorso dell’artista bretone rendendolo un po’ meno solitario e facendone parte integrante ed attiva di una grande e immemorabile danza corale (da Dürer e Rembrandt a

Friedrich e Turner, solo per ricordare quattro ideali compagni di strada del bretone), quella di cui parlava Arshile Gorky: “Nell’arte la tradizione è la grandiosa danza corale della bellezza e del pathos, in cui molte diverse epoche si tengono per mano unite in uno sforzo comune, e al tempo stesso ognuna offre il proprio contributo peculiare e individuale all’evento collettivo; ognuna di loro perde qualsiasi significato se il cerchio delle mani viene spezzato. Per questo ritengo che la tradizione, ossia il legame delle epoche passate con la presente, sia così importante per l’arte; il solista può emergere solo dopo aver preso parte alla danza corale” (Gorky 2007). In questo senso è quanto mai emblematico che la mostra dell’artista bretone presentata nelle sale di Palazzo Poli sia nata dal sodalizio fra due istituzioni fondate proprio su un rapporto dinamico con la tradizione, quali l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Istituto Centrale per la Grafica. Del resto, lo stesso Velly sapeva di dover rispondere alle L’enigma della biglia e della montagna attese che dimorano nel passato , quelle che danno forza ad un vero artista, come acutamente diceva Matisse a Tériade: “Le arti hanno uno sviluppo che non deriva soltanto dall’individuo, ma anche da tutta una forza acquisita, dalla civiltà che ci precede. Non si può fare una cosa qualsiasi, a caso. Un artista dotato non può farlo. Se usasse solo i suoi doni naturali, non esisterebbe. Non siamo padroni della nostra produzione. Essa ci è imposta” (Matisse 1972). Così l’impresa fondamentale del secondo bambino non si sarebbe potuta compiere senza l’opera decisiva del primo ed entrambe, unite, ricompongono e ridisegnano l’armonia universale. Ne viene fuori un’idea di tradizione in divenire, volta verso il futuro, lungimirante, tanto che Velly ha saputo intuire precocemente quella sorta di apocalisse ecologica e spirituale che ci sta sommergendo in un cumulo caotico e nauseabondo di rifiuti e di consumismo globale capace di logorare e gettar via anche le emozioni e i sentimenti. Così come l’immane tragedia delle centinaia di migliaia di migranti disperati dei nostri giorni sembra quasi profetizzata da un caposaldo incisorio di Velly quale Massacre des Innocents (1970), (fig. 2) col moto pullulante di una moltitudine di esseri umani sovrastati dall’incombere dell’apocalisse. Su questa via, a testimoniare lo sguardo ampio dell’artista bretone, di fronte ad un capolavoro di visionarietà come l’incisione Après (1973), (fig. 3) con la proliferazione fluttuante nel vuoto di infiniti oggetti ormai inutili, viene alla mente la scena finale, al rallentatore, di Zabriskie Point (1970) di Michelangelo Antonioni (fig. 4), con l’esplosione della villa nel deserto che coinvolge suppellettili, librerie, vestiti, elettrodomestici e tutto quanto rappresenta il benessere consumistico, finito in mille pezzi e in una polvere nebbiosa, con lo strepitoso accompagnamento dei Pink Floyd. E così nel destino di Velly pare di sentir risuonare anche le parole folgoranti di Cioran: “Vorrei esplodere, insieme a tutto ciò che è in me – tutta l’energia, tutto il contenuto – […] in un’espressione immediata la mia distruzione sia la mia opera, la mia creazione e la mia ispirazione; realizzarmi nella distruzione, elevarmi, nello slancio più folle, al di là dei confini, e che la mia morte sia il mio trionfo. Vorrei fondermi nel mondo, vorrei che il mondo si fondesse in me, e che nel nostro delirio generassimo un sogno apocalittico, strano come le visioni della fine e magnifico come i grandi crepuscoli. La trama del nostro sogno dia vita a splendori enigmatici e a ombre seducenti, a forme bizzarre e a profondità allucinanti […]” (Cioran 1934). Sì, dobbiamo tenercele strette le opere di Velly. Guardandole, si ha finalmente l’impressione di tornare a casa, anche noi, con la biglia bianca in mano, ovvero con quell’idea di arte “epica” che si interroga sul grande mistero della vita e della morte, sul loro intreccio inestricabile, sulla fragilità dell’esistenza umana. Probabilmente Velly è stato l’ultimo insigne artista che abbia affrontato intensamente tali questioni decisive sia con l’incisione che con la pittura, in modi paritetici. Ha continuato ostinatamente a porsi domande che la grandissima maggioranza degli esseri umani non si pone mai durante tutto l’arco della propria esistenza. Ecco la prima, fondamentale, con le cristalline parole di Rilke: “Io non sono riuscito ad esprimere […] tutto il mio stupore che gli uomini da millenni abbiano consuetudine con la vita e la morte (e non parliamo di Dio) e stiano ancora oggi (e per quanto tempo ancora?) di fronte a questi primi, più immediati, anzi precisamente unici compiti (che altro mai abbiamo a fare?) così sprovvisti, come novellini, tra sgomento ed elusione, così miserabili. Non è incomprensibile?” (Rilke 1928). Non è incomprensibile tutto ciò, ci permettiamo di ripetere di fronte all’impotenza creativa, al vetriniamo modaiolo e allo scimmiottamento massmediatico che affliggono tanta parte dell’odierno sistema dell’arte? Viceversa, fin dall’inizio del suo percorso, Velly si è stagliato diritto, ad occhi ben aperti, di fronte a queste immortali domande, e le ha trasformate in forme sostanziate di un “infinito finito”, immanente sia al dettaglio che all’immensità. La sua era un’anima atmosferica, per così dire, capace di scorgere la profonda unità che lega i moti della natura a quelli del pensiero e del sentimento umano.

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