Velly    Silvia dell’Orso (1989)
 
Dalla Bretagna
Geniale vittima del Malinconico Saturno (1989)

Silvia dell'Orso


Dalla Bretagna

Geniale vittima del Malinconico Saturno


in «Arte», a. XIX, n. 196, Mondadori, Milano, maggio 1989, p. 95



Jean-Pierre Velly passa disinvolto da una tecnica all’altra per spiegare in ogni particolare un mondo di fiori, animali e figure,

pervaso da un senso di profonda religiosità



Se Rudolf Wittkower, autore, assieme alla moglie Margot, di quel libro straordinario che è “Nati sotto Saturno”, si fosse spinto sino al secolo ventesimo nella sua esplorazione di temperamenti artistici, avrebbe potuto includere Jean Pierre Velly nel novero delle vittime geniali del pianeta dei melanconici. Per far parte di tale schiera bisogna essere contemplativi, assorti, cogitabondi, solitari e soprattutto creatori, prerogative delle quali non difetta questo bretone romanizzato.


La sua vita appartata e la produzione rarefatta, peraltro esposta periodicamente a Roma, alla Galleria Don Chisciotte, ma passata anche per Milano, alla Gian Ferrari, e per Parigi, alla mostra mercato FIAC, non gli hanno certo impedito di essere notato. Dalla Olivetti per esempio, che quattro anni fa ha acquistato 13 opere, pubblicandole sull’agenda 1986, mentre è recentissimo un incontro fra Velly e l'industriale Pietro Barilla, che ha fra l'altro promosso una pregevole pubblicazione a cura di Giorgio Soavi e Roberto Tassi.


Per familiarizzate con l'immagine fisica di Velly è consigliabile non fidarsi troppo dei suoi autoritratti. Bellissimi, ma esageratamente seri ed inflessibili, non rendono giustizia dei frequenti lampi di ironia che si disegnano sul suo volto.


Velly è nato 46 anni fa a Audierne, in Francia, ed è approdato a Roma nel 1967 come vincitore per l'incisione del Grand Prix de Rome. È stato proprio il lungo soggiorno a Villa Medici ad averlo indotto a scegliere come patria adottiva Formello, un antico borgo a pochi chilometri da Roma. "Unica soluzione concepibile", osserva, "dopo aver abituato i propri occhi a 6 ettari di verde, e senz'altro preferibile ad una casetta in città". Là si trova il suo studio, luogo di lavoro e rifugio ad un tempo, affollato di oggetti di varia natura, ognuno dei quali potrebbe essere uno di quei "memento mori" che fanno di tante nature morte fiamminghe delle inesorabili "vanità": bucrani (ornamenti a cranio di bue) levigati, gusci di tartaruga, mazzi di fiori essiccati, uccelli imbalsamati, ali di farfalle, ma anche un piccolo affresco seicentesco che sta affiorando sotto l’intonaco e due riproduzioni di disegni, uno di Michelangelo e l’altro di Leonardo.


"Sono due disegni stupendi che avevo sotto mano, ma li ho appesi senza un motivo particolare", si affretta a precisare Velly, quasi schermendosi nel sentore di un ennesimo confronto, alla ricerca di una genealogia che ha già suggerito i nomi illustri di Schongauer, Dürer, Bosch, Spranger, Seghers ed altri.


Destino di nordico del resto, nordico come può essere un bretone, naturalmente, con tutte le peculiarità del caso, ma che, quando maneggia pennelli e bulini, non sa frenare i suoi impulsi visionari, offrendo il destro a saporosissime letture critiche. Ma per una volta il merito è tutto dell'artista, sono le due opere a parlare e a porsi subito nella giusta angolazione. Qualunque sia la tecnica adottata, il mondo di Velly, fatto indifferentemente di fiori, animali, paesaggi, figure, risulta perfettamente conchiuso, espresso in ogni dettaglio e soprattutto dotato di un senso profondo di religiosità. "Ci sono momenti", spiega, "nei quali mi sento attratto da una tecnica piuttosto che da un'altra, ed è la volta che mi dedico solo a quella. È come se l’incisione, l’olio, l’acquerello fossero tre mondi con il medesimo scopo, ma con linguaggi specifici; le chiavi del vocabolario, insomma, sono abbastanza stagne".


E questo passare disinvolto da una tecnica all’altra Velly se lo può permettere. Alle spalle ha un tirocinio intensissimo e variegato, sebbene gli anni di studio a Tolone e poi a Parigi, quindi la lunga esperienza professionale, non abbiano mai risolto la sua abilità in riduttivo virtuosismo. "La tecnica", dichiara, "è solo uno strumento da possedere, per quanto non sia mai completamente acquisita, ma non è il vero scopo dell’arte. Quello che mi interessa, ad esempio, in un'incisione come “La strage degli innocenti” (1970-71), che è un coacervo di migliaia di piccole figure, non è la bravura tecnica, ma il fatto che se la si guarda a due metri di distanza si ha la visione di un paesaggio, ravvivato da un bagliore sul fondo, che avvicinandosi si ha invece l’informazione del contenuto effettivo e che indietreggiando nuovamente l’immagine risulta ulteriormente modificata".


È singolare notare come negli oli e negli acquerelli di Velly domini una sostanziale essenzialità compositiva mentre nelle acqueforti si inneschi un'inarrestabile proliferare di immagini, quasi seguendo il principio della metamorfosi caleidoscopica, proprio di tante iniziali figurate nei codici miniati medievali. "Con l’incisione", egli spiega,"si può lavorare di punta, il che corrisponde più ad una scrittura, permettendomi quindi di andare nell’infinitamente piccolo, di essere descrittivo e qualche volta, soprattutto nelle vecchie lastre, persino narrativo, ma senza mai perdere di vista l’unita dell’insieme".


Non ama raccontare come nascono questi suoi lavori ai quali dedica l’intera giornata, lavorando di giorno o di notte, anche per 12 o 14 ore di fila, preparandone scrupolosamente i supporti. Preferisce lasciar parlare la sua pittura, "altrimenti", dice, "sarei stato un poeta o uno scrittore". In autunno Jean-Pierre Velly tornerà "allo scoperto" con una mostra alla Galleria Sanseverina di Parma, dove esporrà oli, acquerelli, incisioni e disegni.


Silvia Dell’Orso

 

leggere ed ascoltare l’intervista in italiano di Radio Ipsa, 1980
























Si Rudolf Wittkower, l’auteur, avec sa femme Margot, de ce livre extraordinaire qu’est “Nés sous le signe de Saturne”, s’il avait poussé au XX è siècle son exploration sur le tempérament artistique, il n’aurait pas manqué d’inclure Jean-Pierre Velly dans le cercle des victimes géniales de la planète des mélancoliques. Pour faire parti de ce cercle, il faut être contemplatif, solitaire, cérébral, et naturellement créateur, toutes les prérogatives que ce breton romanisé possède.


Sa vie en retrait et sa rare production, même si régulièrement exposée à Rome, à la Galleria Don Chisciotte, puis passée parfois à Milan, à la (Galerie) Gian Ferrari, et à Paris, à la foire d’art contemporain FIAC, l’ont remarqué auprès d’un certain public: l’ Olivetti par exemple, qui il y a quatre ans a commandé à l’artiste treize aquarelles pour ensuite les publier dans leur célèbre Agenda 1986, ou encore la rencontre récente entre Velly e l'industriel Pietro Barilla, qui vient de promouvoir entre autre une belle publication de Giorgio Soavi et de Roberto Tassi.


Si l’on veut se familiariser avec l’image physique de Velly il est conseillé de ne pas faire trop confiance à ses autoportraits. Magnifiques certes, mais exagérément sérieux et inflexibles qui ne rendent pas  pas justice aux fréquentes étincelles d’humour qui se dessinent sur son visage.


Velly est né à Audierne, en France, il y à 46 ans, et il est arrivé à Rome en 1967 en tant que vinqueur du Grand Prix de Rome en taille-douce. C’est son long séjour à la Villa Médicis qui l’a conduit à choisir comme patrie adoptive Formello, un vieux bourg situé à quelques kilomètres de Rome. Unique solution concevable, observe-t-il, après avoir habitué ses propres yeux à tant de vert, c’est bien préférable à une maisonnette en ville. C’est là que se trouve son studio, son lieu de travail et de refuge en même temps, rempli d’objets de toute nature. Chacun pourrait faire partie d’un de ces memento mori que sont tant de natures mortes flamandes mettant en valeur l’inexorable vanité: bucranes  poncés, carapaces de tortue, bouquets de fleurs desséchées, oiseaux embaumés, ailes de papillon, mais encore une petite fresque du XVIème qui apparaît sous le crépis et deux reproductions de dessins, un de Michel-Ange et l’autre de Léonard.


“Ce sont dessins formidables que j’avais sous la main et que j’ai accroché sans raison particulière”, s’empresse de préciser Velly, presque inquiet d’une énième confrontation, à la recherche d’une généalogie qui a déjà fait suggérer des noms aussi illustres que Schongauer, Dürer, Bosch, Spranger, Seghers et d’autres.



Destin de nordique du reste, nordique comme peut l’être un breton, naturellement, avec toutes les particularités de ce cas précis; quand il emploie pinceaux et burins, il ne frêne plus ses impulsions visionnaires, et offre ainsi des lectures critiques de haute volée. Mais cette fois-ci, c’est le seul mérite de l’artiste.  Jean-Pierre Velly passe tranquillement d’une technique à l’autre pour expliquer dans les moindres détails son monde de fleurs, animaux et figures, un monde pénétré d’une profonde religiosité. Il y a des moments où, explique-t-il, je me sens attiré par une technique plutôt que par une autre, et je ne me consacre alors qu’à celle-là. C’est comme si la gravure, l’huile, l’aquarelle étaient trois mondes ayant un but identique, mais avec des langages spécifiques ; les clés de ces vocabulaires sont à peu près étanches.


Et passer de façon si désinvolte d’une technique à l’autre, Velly peut se le permettre. Ses nombreuses années aux Beaux-Arts de Toulon, puis Paris, puis sa longue expérience professionnelle non jamais abimé son talent en le réduisant à un simple virtuose. La technique est seulement un instrument à maîtriser, pour autant qu’elle soit acquise, mais ce n’est pas le but de l’art. Ce qui m’intéresse, par exemple, dans une gravure comme le Massacre des innocents qui est un monceau d’un millier de personnages, n’est pas la prouesse technique, mais le fait que si on la regarde à deux mètres de distance on ait la vision d’un paysage, animé par une lueur venant du fond, et qu’en s’approchant on ait l’information du contenu effectif, et qu’en reculant à nouveau notre enquête soit ultérieurement modifiée ».


Il est intéressant de noter que dans les huiles ou les aquarelles de Velly domine une composition essentielle, alors que dans les gravures explosent un flot inénarrables d’images, digne des métamorphoses d’un kaléidoscope, qui font parfois penser aux enluminures des codex du Moyen Âge.


“Avec la gravures, il explique, on peut travailler avec la pointe, ce qui correspond à une écriture, me permettant d’aller dans l’infiniment petit, d’être descriptif, et parfois - c’est vrai dans les planches les plus anciennes - être narratif, mais sans jamais perdre de vue l’unité de l’ensemble.”


Il n’aime pas raconter comment naissent ses travaux, auxquels il consacre toutes ses journées, travaillant de jour comme de nuit, parfois douze ou quatorze heures d’affilée. préparant scrupuleusement ses surfaces. Il préfère laisser parler sa peinture, “autrement, dit-il, j’aurais été un poète ou un écrivain. » Cet automne Jean-Pierre Velly se dévoilera avec une exposition à la  Galleria Sanseverina de Parme, où il exposera huiles, aquarelles dessins et gravures.


Silvia Dell’Orso

 

lire  l’entretien en français de Radio Ipsa, 1980


le texte en français au bas de cette page

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Silvia Dell’Orso lui consacre un essai-entretien dans  le n°196

d’ «Arte»: Milan, mai 1989


de la Bretagne

Victime géniale d’un Saturne Mélancolique


Jean-Pierre Velly passe tranquillement d’une technique à l’autre pour dévoiler avec force détail  son monde de fleurs, animaux et visages,

pénétré d’une profonde religiosité

leggere l’interessante testo di Silvia dell’Orso in Arte FantasticaOrso_arte_fant_fra.htmlOrso_arte_fant_fra.htmlOrso_arte_fant_fra.htmlOrso_arte_fant_fra.htmlOrso_cat_forni_ital.htmlshapeimage_5_link_0shapeimage_5_link_1shapeimage_5_link_2shapeimage_5_link_3

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