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Conversazione con Giuliano de Marsanich

Ginevra Mariani



La vita è una cosa meravigliosa che finisce terribilmente male.

Jean-Pierre Velly


Sfogliando i cataloghi di Jean-Pierre e ripercorrendo la sua storia ho voluto riaccostarmi alle sue opere con uno sguardo diverso, più analitico, cercando di non farmi condizionare dai ricordi personali. Ho ripetutamente osservato le stampe, gli acquerelli, i dipinti, da cui continua a emanare intatta una fascinazione senza tempo, e alla fine il mio sguardo è stato catturato dal ritratto fotografico (fig. 1) che Marcello Melmeluzzi gli ha fatto a Formello nel 1990, quindi poco prima di morire inghiottito dalle acque del lago di Bracciano. Dopo un’attenta lettura ho capito che la risposta a tanti interrogativi era tutta concentrata lì, in quel ritratto, in quello sguardo colmo di una consapevolezza profonda, nella piega accentuata delle labbra, nel gesto delle mani. Melmeluzzi nel suo scabro bianco e nero ci dice molto dell’uomo Jean-Pierre perché sembra aver catturato nell’istante di quel clic il suo pensiero più nascosto. Iscrive la figura in uno spazio denso di nero da cui l’artista emerge offrendosi con pudore, per la prima volta senza il diaframma della sua arte.


Jean-Pierre volge lo sguardo malinconico oltre il limite imposto dall’inquadratura che, come in un ritratto di Antonello da Messina, è costruita da poche linee: il blocco di fogli bianchi e la matita che, appoggiata obliquamente su un piano, anche questo scuro, guida chi osserva in un muto racconto denso di parole. Anche qui, come nelle sue incisioni e acquerelli, si coglie una sorta di riflesso della sua anima, una specie di sguardo rovesciato, quello che Leon Battista Alberti definiva: “Una aperta finestra dalla quale si abbia a veder l’istoria”. è il dialogo intenso dell’artista con se stesso e il suo mondo che Melmeluzzi, con grande sensibilità, riesce a catturare in quello sguardo, trasformandolo in una sorta di epifania, di rivelazione della sua poetica. In quel periodo Jean-Pierre aveva raggiunto la piena maturità, conosceva bene la grafica europea, lo stesso Albrecht Dürer, ne L’insegnamento della misura, spiega come disegnare in prospettiva servendosi di un’apposita finestra. Il tema della finestra mi interessa per capire quale fosse il suo rapporto con l’opera e soprattutto con chi la osserva.


GdM


Quello di Jean-Pierre è sempre stato un intenso dialogo con se stesso, è uno dei pochi artisti contemporanei che ha avuto un’identificazione assoluta con la sua opera: gli alberi sono lui, la natura con i suoi fiori, il cielo e il mare, in questo senso è un artista romantico, nordico, che non a caso ha assorbito la sensibilità di pittori di paesaggio quali Carl Gustav Carus o più recentemente Arnold Böcklin di cui non è difficile cogliere gli echi nei suoi ultimi dipinti. Anche il riferimento costante all’opera di Albrecht Dürer è frutto della sua radice nordica, il sole all’orizzonte di molte sue incisioni è un’evidente citazione del sole nella stampa della Melencolia. Il sublime kantiano nasceva proprio da questo, dal contrasto tra ragione e sentimento, contrasto che finisce per provocare quel senso di sgomento che coglie l’uomo di fronte al grande spettacolo della natura, un tema che nelle opere degli anni Ottanta diventa il vero protagonista di acquerelli e dipinti. Gli acquerelli dei fiori, realizzati per l’Agenda Olivetti curata da Giorgio Soavi nel 1986, sono tutto questo: nei mesi di Luglio e di Agosto la luce del sole è la vera protagonista, una deflagrazione che illumina l’orizzonte e coinvolge tutta la natura circostante, il cielo e il mare come nella creazione del mondo.


GM


Proprio il mese di Agosto (fig. 2) sembra alludere al tema della finestra albertiana, tu dici che è un dialogo con se stesso che non comprende chi guarda. In un album conservato insieme ad altri nella collezione della famiglia a Formello, ci sono gli schizzi fatti durante il corso all’école nationale supérieure des beaux-arts di Parigi, tra questi ho trovato un disegno (fig. 3) in cui già propone il tema della finestra, dello sguardo sul mondo, quasi una necessità di stabilire un dialogo con la natura. In seguito aggiungerà il tema della luce, che è costante nell’opera incisa negli anni Settanta, ma che aveva fatto la sua comparsa già in Rosa au soleil del 1968 (cat. 12). In questa stampa usa il bulino per rendere più plastico il solco tracciato con l’acquaforte, e definisce il corpo di Rosa nel segno della scultura dell’Aurora di Michelangelo. Ferma nel gesto antico di appuntare i capelli con la forcina, Rosa, con tranquilla sicurezza guarda all’orizzonte l’altra parte di sé, certa di poter arrestare quel groviglio di oggetti che sembra voler travolgere l’intero spazio del foglio. Ma anche qui, in fondo, risplende la luce, il sole illumina la terra, immobile nel suo continuo mutare. Sembra essere questa la chiave dell’universo di Velly, quello che lui stesso definisce, nella conversazione con Michel Random del 1983: “Le rapport du macrocosme”au microcosme”. Così nel ‘79 nella stampa Les temples de la nuit (cat. 22), dove la tecnica dell’incisione ha ormai raggiunto un grado di grande raffinatezza, Jean-Pierre arriva alla chiusura di un ciclo iniziato negli anni Sessanta: dopo esplosioni e implosioni di corpi e natura, la figura femminile viene ora riassorbita dalla natura circostante e ne diviene parte, come nell’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini, mentre la luce continua immutabile a illuminare il cielo e il mare. Velly parlava di una luce fossile, la luce delle origini che tutti noi ci portiamo dentro, mi sembrano parole che, per chi lo ha conosciuto, acquistano un significato importante, perché il tema della luce è sempre presente nelle incisioni tra gli anni Sessanta e Settanta. In quegli anni quelle stampe hanno determinato il vostro incontro, da cui è nato un rapporto molto intenso e profondo che non può non avervi influenzato nel lavoro e nella vita. Come giudichi quelle incisioni?


GdM


Le incisioni più affascinanti e complesse sono quelle eseguite durante il soggiorno a Villa Medici e i primi anni a Formello: Tas d’ordures, Le massacre des Innocents, Qui sait? sono espressione del suo senso della vita, dei luoghi dell’esistenza, in questo è profondamente diverso da Balthus che in quegli anni dirigeva Villa Medici. L’equilibrio estetico di Velly in Rosa au soleil o nella Femme allongée, è completamente privo dell’erotismo che rimane invece una fondamentale chiave di lettura dell’opera di Balthus.


GM


E importante capire questo rapporto, per una felice coincidenza alla fine del 2015 Roma ha reso omaggio a Balthus. Anche se è innegabile la sua distanza dall’universo poetico di Jean-Pierre, soprattutto nelle opere esposte alle Scuderie del Quirinale, in quelle a Villa Medici, nella sezione L’Atelier dove sono visibili gli studi eseguiti quando era direttore, ho colto invece delle notevoli affinità tra alcuni disegni. In particolare in uno studio di nudo e in uno di paesaggio, opere che ricordano il Nudo grande del 1989 (cat. 48), e i fogli Sutri (fig. 4) dello stesso anno. Mi ha colpito anche l’inquadratura di una quercia, uno scatto fatto con la polaroid da Balthus degli anni Novanta, è impressionante la sua somiglianza con gli acquerelli che Jean-Pierre aveva già realizzato nel 1989 (cat. 51). Come lo spieghi?


GdM


Non bisogna dimenticare che è stato Balthus a fargli assegnare un riconoscimento mentre era borsista a Villa Medici, quindi ne apprezzava il lavoro, e poi penso che Jean-Pierre non poteva non aver subito il fascino di una personalità come quella di Balthus. I luoghi ritratti erano poi gli stessi perché Balthus abitava a Montecalvello e quindi parliamo della campagna intorno a Viterbo, dove Jean-Pierre si recava a disegnare o a raccogliere tracce di animali: piccoli corpi, ossa e teschi che appendeva nel suo studio delle meraviglie per poi dipingerli. Un giorno è arrivato in Galleria e mi ha regalato un bucranio che ancora conservo. Certo in comune avevano lo stesso atteggiamento di grande fermezza nei confronti del loro lavoro. Jean-Pierre nella conversazione con Jean-Marie Drot definisce Balthus come un uomo di un estremo rigore.


GM


Sì, in quella conversazione Velly ricorda Balthus come una persona che: “non fa alcun compromesso, interamente preso dalla sua arte, specchio fedele della sua interiorità”, e aggiunge una riflessione importante per capire quale fosse la sua posizione nei confronti del lavoro di un artista: “è un maestro, secondo me, colui che ha il coraggio di andare al limite estremo di se stesso”. C’è un comune approccio all’arte, penso allo studio dei maestri del Quattrocento italiano, nelle stampe Jean-Pierre mostra una notevole conoscenza della grafica del Rinascimento. Tutto questo definisce la loro sostanziale classicità in un momento in cui il panorama artistico internazionale era orientato verso un altro tipo di ricerca. Balthus diceva di se stesso: “Io non sono contemporaneo, sono atemporale”, e in occasione della personale dedicatagli dalla Tate Gallery nel 1968 rifiutò di parlare di sé: “Niente note biografiche. Balthus è un pittore di cui non si sa niente. Ora guardiamo i suoi dipinti”. Credo che tutto questo abbia suggestionato Velly.


GdM


Certamente, ma mentre l’opera pittorica di Balthus rimane in una posizione di estraneità alla realtà che lo circonda, Jean-Pierre al contrario è totalmente immerso nel suo contemporaneo, nella vita, è proprio da questo nasce la sua ansia panica che poi trasfonde nella sua opera, che è un dialogo con se stesso, non con chi guarda. è il coinvolgimento drammatico con l’esistenza che in lui è totale. La vita è drammatica, l’esistenza stessa ha un aspetto tragico anche perché dominata dal caso, ma attenzione: in lui bisogna distinguere tra energie vitali e energie negative, una dualità, un’alternanza che ha segnato e caratterizzato tutta la sua opera e ha dato nutrimento alla sua straordinaria creatività. Guardiamo le sue incisioni: Valse lente pour l’Anaon del ’67 (cat. 9), ha un carattere molto drammatico e uno spirito pienamente nordico, anche se filtrato attraverso la suggestione del Cristo morto di Andrea Mantegna, citazione che ritorna più volte anche nei disegni, nel corpo ormai senza vita in Qui sait? del ’73 (cat. 18) o in quello ormai consunto di N’amassez pas les trésors (cat. 20). Ma accanto a queste immagini, che sono frutto di un travaglio interiore, quasi senza salvezza, ecco poi il magnifico nudo di Rosa au soleil e di Maternité au chat (cat. 10). Nel 1967 era nato Arthur, il suo primogenito, e il tema della maternità, rappresentato nel continuo divenire delle metamorfosi del corpo, che si fa paesaggio in un tempo senza misura, sovrasta quello della morte e della leggenda bretone delle anime vaganti nell’Anaon.


E questa la vitale alternanza “nella sua opera” di energie di segno opposto, come tu hai ricordato lui stesso diceva che “la vita è una cosa meravigliosa che finisce terribilmente male”.


GM


Così sembra anche nella conversazione con Drot, quel dialogo risale al 1989, un anno importante perché, a mio avviso, rappresenta il raggiungimento di un maggiore equilibrio esistenziale, le sue sono parole fondamentali per capire l’uomo e il poeta. Alla fine dell’intervista rispondendo a una domanda che voleva sottolineare la sua visione pessimistica del mondo Jean-Pierre sembra non essere d’accordo con quella lettura: “Con i colori mi piace raccontare che nulla è grave, che un giorno morirò, ma l’umanità continuerà anche se la vita dovesse sparire un giorno sulla Terra... è un tipo di realismo che sembra drammatico ma che in effetti non lo è”. Nonostante tutto quanto è stato detto sulla drammaticità di Jean-Pierre anche io colgo in lui, e nella sua opera, la presenza costante di un bagliore, di una luce, una possibilità di salvezza. Pensiamo a Le rat mort, incisa nel 1986 (cat. 24), un soggetto carico di disperazione, il grido di un refusé, eppure ecco, ancora una volta, il chiarore della luce è lì all’orizzonte, a ricordare che la realtà è ombre et lumière, che è poi il titolo di una stampa incisa nel 1990 (fig. 5).


GdM


Fa sempre parte di quell’alternanza di energie positive e negative, inoltre il suo è stato negli anni un percorso sempre in crescita che si è arricchito via via di nuove suggestioni, che hanno dato rinnovato vigore alla sua ispirazione; è una limitazione voler usare lo stesso metro per tutti gli anni della sua lunga vicenda artistica. Il passaggio dal bianco e nero dell’incisione, al colore degli acquerelli e dei dipinti è espressione di questa sua evoluzione, è come se la drammaticità, sempre sottesa nella sua opera, avesse trovato una dimensione più astratta, meditativa, direi più nascosta e meno facile da comprendere. Per fare un esempio: è senz’altro più facile cogliere la forza drammatica di un’immagine come quella del topo morto, perché ti colpisce senza bisogno di mediazioni, di spiegazione, mentre il groviglio di foglie e fiori, ormai quasi privi di freschezza, solo dopo un primo sguardo ci si accorge che emanano un senso di finitezza struggente, lì è proprio il colore, l’acquerello a trarre in inganno. Non è un caso che abbia usato il colore, se non sbaglio, in una sola incisione: Rondels pour Après che infatti non è tra le mie preferite.



GM


Il bianco e nero dell’incisione e il colore mi ricordano le parole di Erasmo da Rotterdam sulle stampe di Dürer: “cosa non seppe esprimere con i suoi monocromi... Luce, ombra, splendore... di modo che se si volesse aggiungervi il colore si guasterebbe l’opera”  (Panofsky 1967, p. 60). È stato un artista molto amato da Jean-Pierre che, a metà degli anni Settanta, ha inciso opere superbe con puntuali riferimenti al Maestro di Norimberga: Qui sait? , N’amassez pas les trésors. In quest’ultima però, un evidente monito contro il potere del denaro, sembra sparita quella sorta d’ironia che avevo colto in Qui sait? (cat. 18). Qui il cane, una citazione dalla Melencolia di Dürer, a differenza del cane düreriano che dorme, non è addormentato, ma ci guarda, vigile, con gli occhi aperti, come a voler segnare la sua lontananza dalla condizione dell’uomo, dominata dal pensiero della morte. Quel cane, Pirouette, lo ricordo nella casa di Formello, i figli di Jean-Pierre, Catherine e Arthur, conservano un disegno del 1973, probabile studio per l’incisione (cat. 31). Per buona parte degli anni Settanta il bianco e il nero sembrano dominare la sua ricerca, poi, accanto ai neri vellutati delle sue incisioni, compaiono i segni, prima leggeri poi più densi, della punta d’argento, in questi fogli intravedo l’inizio della ricerca che poi lo porterà a sperimentare il colore. Dapprima in maniera accennata nella serie di disegni per Velly pour Corbière, esposta alla Galleria Don Chisciotte nel 1978, e poi sempre di più negli acquerelli dei fiori dei primi anni Ottanta, in cui il colore è più pensato che reale. In quegli anni hai avvertito un passo diverso, l’apertura di un nuovo corso?


GdM


In quegli anni esaurisce la necessità di incidere, forse vuole andare oltre il bulino, per lui lo strumento della conoscenza. Lo ricordo nel suo studio a Formello, chino sulle sue meravigliose lastre di rame, sembrava veramente un alchimista intento a cercare di trasfondere anima al metallo lucente per trasformarlo. Nel momento in cui posa il bulino, schiarisce la sua tavolozza e passa al disegno e poi ancora all’acquerello, cercando nuove vie di espressione, però parte sempre dal disegno che corrisponde alla sua natura d’artista, d’altronde lo stesso Dürer era uno spirito essenzialmente grafico. Ma anche con il colore non si spegne la drammaticità: gli acquerelli per Corbière sono presagi di morte, Sphère (cat. 34) è uno degli autoritratti più emblematici, rappresenta il ricongiungimento con il tutto, il ritorno nel cosmo tra mare e cielo, è una prefigurazione di quello che poi accadrà nel 1990. Ricordo che Giorgio Soavi ha scritto una frase molto vera: che tutta la sua opera è attraversata da una scia marina, e che è sempre l’acqua a ritornare lì, dove troviamo il suo volto. L’autoritratto è in questi anni come un mezzo di astrazione dal resto del mondo e dagli altri, una meditazione, un’ascesi.


GM


Negli acquerelli per Corbière Jean-Pierre inizia a scrivere sui fogli delle poesie o delle brevi frasi, non mi sembra sia successo prima, almeno in maniera così rilevante. Forse è stato quello il suo impatto con la poesia, anche le parole scritte a matita, i titoli stessi acquistano un valore estetico, perfettamente integrato con il disegno. Quel periodo così denso di stimoli lo ricordo bene anche io che avevo cominciato la mia collaborazione con la Galleria, ricordo il lavoro di traduzione delle poesie curato da Lucio Mariani, ma soprattutto ricordo l’incontro con Leonardo Sciascia che curava il catalogo. Un uomo schivo, un intellettuale raffinato, mentre ti aspettavamo in Galleria, e io ero molto emozionata, parlammo dell’incisore siciliano Giuseppe Vasi e della sua guida di Roma l’Itinerario Istruttivo del 1763 che lui possedeva. Mi stavo per laureare e fortunatamente conoscevo bene l’argomento, così quel giorno è ancora vivo nella mia memoria, potrei fare una descrizione precisa di come era vestito, come appoggiava il braccio alla spalliera della sedia  fumando, mi sentivo fiera per aver conversato con uno scrittore italiano così importante. Molti sono stati gli intellettuali che lo hanno amato, e in particolare gli scrittori, forse perché riuscivano più di altri a cogliere la profondità della sua arte, il suo spirito classico di artista senza tempo, “atemporale”, carico di uno spessore esistenziale che ancora oggi emoziona. Pier Luigi Berto, che è tra i curatori della mostra, ha raccontato della curiosità e dell’emozione che suscita negli allievi dell’Accademia di Belle Arti, e tutto questo è straordinario perché continua ad accadere dopo venticinque anni, ma in realtà molti di più, se valutiamo come è cambiato il mondo e sono cambiati i giovani in questo quarto di secolo. Ricordo che era un buon insegnante e un buon lettore.


GdM


Sì era un lettore attento, Corbière, Baudelaire, i poeti maledetti, ma soprattutto Louis-Ferdinand Céline, aveva una vera passione che era anche la mia. Discutevamo a lungo dei suoi libri, Céline usava un linguaggio in cui mischiava parole in argot con parole ricercate e colte, creando quasi una sorta di flusso drammatico che definirei musicale, è uno dei rari casi in cui mi piacerebbe conoscere bene il francese per poterlo apprezzare direttamente, senza la mediazione del traduttore. Il suo linguaggio è solo apparentemente scabro, ma allo stesso tempo, come nelle opere di Jean-Pierre, è estremamente raffinato, questo è un contrasto intrinseco che li accomuna insieme all’amore per gli umili, i diseredati, gli ultimi. Céline era medico e per molti anni ha lavorato nei sobborghi di Parigi: era il medico dei poveri, non si faceva pagare. Voyage au bout de la nuit è carico della stessa ansia panica che colgo nelle opere di Velly. E tutto questo che ha creato una specie

di incantamento per scrittori come Giorgio Bassani, Leonardo Sciascia, Pietro Citati, Alberto Moravia, che infatti cita il “roseau pensant” di Pascal. La fragilità, la caducità sono la metafora dell’eterno divenire e danno alimento a una dimensione spirituale densa di suggestioni. Un incontro in particolare mi è rimasto impresso, anche se ormai sono passati molti anni: quello con Mario Praz che all’inizio degli anni Settanta era un frequentatore abituale della Galleria. Un uomo di grande spessore che aveva una capacità incomparabile di parlare di letteratura o di arte, una profondità di pensiero che raramente ho incontrato. La sua intelligenza di acuto e raffinato letterato era stata catturata dalle stampe di Jean-Pierre, che aveva visto in Galleria, dopo la prima mostra del 1971, e subito ne aveva riconosciuto lo spirito singolare, la forza interiore. Ci invitò nella sua casa, che in quel periodo era ancora a Palazzo Ricci in Via Giulia. Entrammo in un luogo incantato e Praz era lì ad attenderci, uno straordinario anfitrione che ci mostrò dipinti, disegni, oggetti, ma anche mobili, tutto quello che aveva raccolto e amato e che rappresentava la sua vita. Jean-Pierre rimase affascinato dall’atmosfera di quella casa; fu un incontro importante perché alcuni anni più tardi Praz accettò di scrivere l’introduzione al catalogo generale delle stampe di Didier Bodart. Velly aveva uno spessore e una forza interiore che hanno contribuito a determinare l’inesauribile attualità della sua opera.


GM


Nelle sue opere si avverte una ricerca quasi religiosa, mi ha colpita la sua risposta al sacerdote di Formello che gli chiedeva se pregava: “padre ogni passo che faccio è una preghiera”. Credo che l’emozione che Velly ha sempre suscitato, e continua a suscitare, sia dovuta anche alla sua forte carica spirituale, che Velly non ha mai tradito. Il suo mondo visionario è frutto di tante esperienze, anche la mostra Incisori Visionari di Parigi, una collettiva esposta alla Don Chisciotte nel 1976, indica questa strada. Il curatore Michel Random allude a “limiti e tensioni dell’essere” e scrive una frase illuminante sull’opera di Yves Doaré: “L’uomo e la crosta terrestre sono tutt’uno”, questa è la radice comune perché il mondo interiore di Jean-Pierre è alla ricerca dell’unità cosmica di uomo e natura. Come è possibile cogliere ne La Clef des Songes che è del 1966, e poi nelle diverse declinazioni del corpo disteso di Rosa, dove però fa un passo avanti, si concentra sui valori umani, forse un’influenza del suo intenso rapporto con la moglie. A differenza di Yves Doaré Velly mette al centro una donna in carne e ossa. Random in quell’occasione parlava di un gruppo di artisti, ma non vedo tangenze con Jacques Le Maréchal anche se era un maestro riconosciuto di vita, ma forse ormai lontano dal loro mondo formale.


GdM


Jean-Pierre aveva conosciuto Random durante il soggiorno a Parigi, era uno studioso di Estremo-Oriente e di arti marziali, era fotografo ed era il critico che promuoveva l’arte visionaria su cui ha pubblicato nel 1976 anche un libro: L’Art visionnaire. Quando siamo andati nel 1982 a Parigi per la Fiac, la fiera di arte contemporanea che si teneva al Grand Palais, siamo stati ospitati a casa sua, Velly andava quasi sempre da lui. Mi ricordo di interminabili conversazioni, alcune fortunatamente Random le ha registrate, ma soprattutto ricordo quell’esperienza come l’inizio di una nuova stagione che ha portato cambiamenti fondamentali anche nella sua vita.


GM


Tu che non hai mai amato viaggiare, hai deciso di affrontare quella che si presentava come un’avventura, quindi confermavi in quel modo la tua fiducia nell’artista. Ricordo che siete partiti insieme e poi vi ho raggiunto da Random, in quella casa si avvertiva immediatamente una sensazione di eccitazione mentale e di agitazione per la preparazione dello stand, interamente dedicato alle opere di Velly. Si parlava, si organizzava febbrilmente ogni cosa, si mangiava sotto casa di Michel, un susseguirsi di impegni senza tregua. Da Roma erano venute parecchie persone, ricordo una cena con Ottaviano Del Turco, sindacalista con la passione per l’arte e per Jean-Pierre. Vittorio Olcese, che era uno dei suoi collezioni sti più assidui, incantato dai colori dei suoi acquerelli di fiori e alberi. Giorni intensi in una Parigi che ancora meritava quel ruolo di capitale dell’arte contemporanea nato negli ultimi anni dell’Ottocento. Sembra quasi di aver vissuto secoli fa, in un altro mondo.


GdM


Quell’esperienza è stata fondamentale perché ha confermato che il nuovo percorso intrapreso da Jean-Pierre con gli acquerelli dei fiori parlava un linguaggio direi universale, il pubblico della FIAC non lo conosceva eppure fu un successo assoluto perché abbiamo venduto tutto. Era impensabile, siamo partiti in maniera avventurosa, in treno perché non amava l’aereo, non lo prendeva mai, mi ricordo che Jean-Pierre arrivò alla stazione con la cartella sottobraccio, le cornici ce le portò un amico gallerista. Mettemmo su lo stand da soli, esporre alla FIAC era molto costoso e la Galleria non poteva permettersi errori, ma avevo un’assoluta fiducia in Jean-Pierre, e poi con lui era facile lavorare: aveva un’incredibile intelligenza delle mani, sapeva fare tutto. Arrivò il giorno dell’inaugurazione e una grande folla si riversò negli stand, e continuò anche nei giorni successivi, non esagero se dico che fu un trionfo, le persone si fermavano colpite dai suoi acquerelli e chiedevano informazioni (fig. 6). è stata anche una mia vittoria perché quando prima di partire avevo fissato i prezzi in franchi, un nostro amico mi chiese se ero matto! A quei prezzi non li avrei mai venduti. Li vendemmo tutti. è stato un momento magico perché ha rappresentato la prova di una considerazione più vasta, internazionale, un ministro francese comprò un acquerello e Claude Bernard, che era un gallerista molto importante a Parigi, mi chiese subito una sua mostra. In Italia aveva un gruppo di collezionisti molto raffinati che aspettavano di poter avere le sue opere a ogni mostra in Galleria, ricordo che per le stampe c’era una vera e propria caccia per trovare esemplari de Le Massacre des Innocents o de La clef des Songes che, già a quell’epoca, erano divenute rare. I suoi collezionisti sono sempre stati molto gelosi delle opere di Jean-Pierre, mi ricordo che quando Pietro Barilla arrivava in Galleria voleva vedere gli ultimi lavori di Velly e amava andare a Formello, perché gli piaceva incontrarlo in quello studio così particolare. Nel 1993 quando Barilla ha festeggiato i suoi ottanta anni, ha esposto la sua collezione di arte moderna nella villa di Luigi Magnani a Traversetolo; ricordo che le opere di Velly: il suo Autoritratto, la Grande quercia, l’Ora grande, provocavano una forte suggestione.


GM


Questo l’ho verificato anche io durante la ricerca degli acquerelli e dei dipinti da esporre in mostra, alcuni erano contrari a separarsi dalle opere, alla fine hanno collaborato solo per amore di Jean-Pierre, perché questo lavoro vuole essere un modo per riportare l’attenzione su di lui a Roma, dove manca una grande mostra dopo quella dedicatagli nel 1993 da Jean-Marie Drot a Villa Medici. Tornando alla Fiac, come è stata vissuta questa esperienza, come ha influito sull’uomo e l’artista?


GdM


Ha provocato una contraddizione in lui che aveva una psicologia che non esagero a definire di tipo medievale, sapeva fare tutto con le sue mani: sapeva tirare con l’arco, accendere il fuoco nel camino, preparare gli strumenti per il suo lavoro di incisore. Quando comprò casa a Formello cominciò a restaurarla da solo. Dopo Parigi Velly raggiunge finalmente il benessere economico, ma questo lo pone di fronte a una contraddizione: il denaro, con cui aveva un rapporto di disinteresse totale, gli consente una vita più tranquilla. Come ho detto altre volte la sua era stata una strada faticosa, raccontava sempre come durante il suo soggiorno a Parigi per frequentare l’Ecole des beaux-arts avesse affittato con un amico una stanza con un unico letto in cui dormivano a turno. Aveva conservato l’abitudine a consumare l’essenziale, il necessario, allora quando raggiunge il riconoscimento, e un maggiore benessere, il contrasto diviene drammatico.


GM


Ricordo che viveva chiuso nella sua realtà familiare, come in una crisalide che lo proteggeva; in questo credo che Formello sia stato importante come luogo in cui poter esplicare il suo mondo, in quegli anni il paese corrispondeva a quella che hai definito una “psicologia medievale”. Oggi viviamo in un periodo in cui si va sempre più affermando una società caratterizzata da egoismo e individualismo: non si ha più tempo per ascoltare chi ci sta accanto, ma si inseguono degli scopi precisi: potere e denaro, che poi sono la stessa cosa. Andy Warhol diceva di amare il denaro perché dava potere e gli permetteva libertà di azione. Mi viene in mente Warhol in quanto grande artista, ma con una posizione totalmente all’opposto rispetto a quella di Jean-Pierre, che in alcune incisioni, penso a N’amassez pas les trésors o anche a Tas d’ordures (cat. 13), Suzanne au bain (cat. 14) critica ferocemente la “società affluente”, la società opulenta del mondo occidentale, e la rifiuta totalmente. La necessità di denaro ha spesso perseguitato gli artisti, e la grafica, sin dai tempi di Dürer, è stata di grande aiuto perché permetteva loro di guadagnare più facilmente, senza investire grandi somme di denaro. Pierre Higonnet scrive che, negli anni Settanta, Velly può cominciare a disegnare e a dedicarsi all’acquerello perché la vendita delle stampe gli consentiva comunque un guadagno. Non credo però che si possa semplificare troppo, interpretando un artista attraverso le tecniche che usa. Velly nel 1983, sempre nella sua conversazione con Random, ci ha lasciato una testimonianza inequivocabile sul suo metodo di lavoro: “Je pense avec l’aquarelle, l’huile ou le burin. C’est associer une technique à une

sensation. Trois modes complémentaires qui ne sont qu’un” (Random 1983, p. 4). In quel periodo era infastidito da chi gli rimproverava di non andare aldilà della tecnica, non voleva essere ricordato solo come il virtuoso bulinista del Massacre des Innocents o di Un point, c’est tout (cat. 21). In quegli anni vuole andare oltre l’incisione, le sei lastre realizzate negli anni Ottanta sono commissioni della Don Chisciotte, ricordi qual’era il suo rapporto con l’incisione in quel periodo e come viveva la richiesta della committente?


GdM


Negli anni Ottanta ha ricevuto molte commissioni, penso a quella importante per l’Agenda Olivetti, ma in questo non ha mai avuto problemi, si fidava di me, sapeva che non gli avrei mai proposto nulla che potesse scalfire la sua immagine di artista, anche perché tutto questo si rifletteva sulla linea di ricerca che definiva anche il profilo della Galleria. Nell’intervista che mi ha fatto Higonnet nel 2009, per la mostra al Panorama Museum, ho detto che Jean-Pierre si poneva in contrasto con certe posizioni predominanti dell’epoca, era lo stesso programma seguito dalla Galleria dal 1962, l’anno della sua fondazione. La trasformazione delle gallerie e del mercato ha cominciato a subire un profondo mutamento proprio negli anni Ottanta, un cambiamento delle persone e dei loro interessi, anche gli artisti hanno cominciato a cambiare, alcuni hanno ripetuto lo stesso quadro all’infinito solo perché si vendeva, non è stato così per Velly. E stato una sorta di sacerdote laico che ha fatto coincidere la vita con le sue opere. Così negli ultimi tempi, quando si è irrimediabilmente incrinato il rapporto con Rosa, ha dovuto rivedere tutto quanto aveva costruito negli anni, conoscendolo bene penso sia stato molto difficile per lui.


GM


Lo credo anch’io, ricordo che quando andammo a Parigi nel 1983, per la sua mostra da Michèle Broutta, una sera parlando della sua famiglia, dei problemi che non riusciva a risolvere, alla fine disse: “J’aime ma femme”, mi colpì, perché aveva un’espressione molto accorata tanto che lo ricordo come se fosse oggi.


GdM


La divisione da Rosa è stata un vero dramma, inoltre ha significato il distacco dai figli che amava profondamente, dalla casa che aveva costruito insieme alla moglie. Ma Rosa purtroppo faceva il suo stesso mestiere, l’artista, ed era brava, ma questo creava un conflitto permanente, una sorta di competizione che ha finito per intaccare profondamente i loro rapporti. Su Rosa poi, come sempre per le donne, pesava tutta l’organizzazione della famiglia, mentre Jean-Pierre con le sue opere rimaneva sempre al centro dell’attenzione di critici e collezionisti. Ricordo che in quel periodo cominciarono gli incidenti con l’automobile, in quel perenne rapporto tra arte e vita, che è la chiave di lettura della sua opera, ha cominciato a sentire il desiderio di una maggiore introspezione, che lo ha portato a stabilire quel muto colloquio con se stesso visibile nei numerosi autoritratti realizzati tra il 1986 e il 1989. Quasi un presagio il ritratto su carta del 1987 (cat. 3) in cui si ritrae più vecchio. Dopo la separazione si era ritirato a vivere nello studio, una stanzetta che mi ricordava una cella monacale. Fino alla fine coerente con se stesso nel rifiuto ad accettare il cambiamento, anche quello di Formello, il paese in cui aveva deciso di vivere e che, con l’arrivo del benessere, andava trasformandosi, come tutta l’Italia. Si sentiva tradito dal mutamento di una società sempre meno in sintonia con il suo modo di sentire. Come ho già detto era estremamente coinvolto nella realtà che lo circondava, e che ormai non era più credibile e accettabile dalla sua sensibilità. Ha cominciato a bussare alla porta della morte, e la Signora alla fine ha aperto. Credo che se in quegli anni non avesse incontrato Elsa, questo sarebbe successo prima, la sua storia con Elsa gli ha permesso di vivere qualche anno in più.


GM


La metafora del dialogo con la morte mi ricorda la partita a scacchi del Cavaliere con la Morte nel Settimo sigillo, il bianco e nero della pellicola di Ingmar Bergman rimanda in modo stringente ai suoi neri drammatici e vellutati, al mondo quasi medievale di JeanPierre. Qual’era il suo rapporto con il cinema?


GdM


No, non amava particolarmente il cinema. Il suo mondo fantastico è colto, pieno di rimandi, ma sempre frutto della sua conoscenza della grafica europea, della poesia e della letteratura da cui ha sempre tratto la linfa vitale per le sue opere. La sua fine nel lago di Bracciano nel 1990 rappresenta il culmine della sua incessante ricerca di unità sostanziale con il cosmo, che genera e fagocita senza soluzione di continuità. E un discorso dell’unità nel tutto, l’unica possibilità di esistere è essere nel caos del cosmo, che poi non è altro che la vita che si genera in un continuo divenire. Nonostante fosse un bretone, non sapeva nuotare.

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Pier Luigi Berto                                           Ginevra Mariani